Viviamo oggi in un contesto dove il dibattito sul “testamento biologico” viene affrontato, dalle aule accademiche ai contesti più comuni con grande energia, anche se tale strumento in realtà non gode attualmente di un vero e proprio riconoscimento giuridico, giacché i numerosissimi progetti di legge presentati su questa tematica sono rimasti sempre tali senza essere stati mai convertiti in legge. E’senz’altro vero che il Parlamento Italiano in passato ha utilizzato espressioni quali “Testamento Biologico” o “Disposizioni Anticipate di Volontà”, ma è altrettanto veritiero che l’ultimo provvedimento in ordine cronologico, ovvero il DDL Calabrò, si è espresso in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento[1].
Dunque quali di queste definizioni appare essere la più consona? Testamento Biologico, Disposizioni Anticipate di Volontà o Dichiarazioni Anticipate di Trattamento? Urge innanzitutto, per capire ciò di cui si parla, focalizzarsi sulla terminologia utilizzata che spesso nasconde veri e propri escamotage per filtrare concezioni non sempre volte a tutelare la sacralità e l’indisponibilità della vita umana. Il termine “Testamento” proviene difatti dall’orizzonte tipicamente giuridico. Non è forse una forzatura applicare un termine legale ad una realtà molto più complessa e articolata quale la vita umana? Non sembra forse che quest’ultima si metta alla pari delle questioni patrimoniali che sono alla base del testamento giuridico? Non passa forse l’idea che non ci sia nessuna differenza tra il soggetto del testamento biologico che è una persona viva ed il soggetto del testamento giuridico le cui volontà iniziano a produrre i propri effetti solo dopo la sua morte? Non si legge forse l’intenzione di rendere vincolanti le scelte sulla vita umana alla pari di quelle fatte sui beni materiali? Queste sono solo alcune delle questioni che occorre quantomeno prendere in seria considerazione. Simili equivocità appaiono anche nell’enunciazione di “Disposizioni Anticipate di Volontà”. Quest’ultima utilizza due vocaboli che in un certo qual modo tendono a sottolineare l’obbligatorietà delle proprie “disposizioni” e delle proprie “volontà”, senza lasciare margine al dialogo, al confronto, alla relazione. Per tale ragione il Comitato Nazionale per la Bioetica, organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, non per caso, sostituisce il termine “disposizioni” con il vocabolo “dichiarazioni”, al fine di evidenziare che la volontà della persona interessata non deve essere vincolante né per il medico né per i familiari, ed il termine “volontà” con il vocabolo “trattamento”, per evitare che la vita umana divenga oggetto di decisione del documento, sono infatti i trattamenti a costituire la materia del documento e non la vita stessa, introducendo così la definizione di «Dichiarazioni Anticipate di Trattamento»[2], poi in seguito impiegata anche dal disegno di legge sopra citato. Lo scopo di tali atti, così intesi, è sostanzialmente allora quello di rendere possibile la continuazione del dialogo tra la persona interessata, il medico ed i familiari nel caso in cui la prima versi in uno stato di incapacità, e non quello di rendere il medico o i familiari dei semplici burocrati che accolgono in maniera acritica gli auspici precedentemente espressi limitandosi riduttivamente ad eseguirli. A questo punto, il fatto che tutt’oggi ci si ostini ancora a parlare di “testamento biologico” o “disposizioni anticipate di volontà” dimostra che, o tale risoluzione non sia stata ancora compresa completamente, o forse c’è la volontà di non comprenderla fino in fondo.
[1] Cfr. DISEGNO DI LEGGE 26 Marzo 2009, n.10, «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento», su: http://www.senato.it, 27/03/2014.
[2] Cfr. COMITATO NAZIONALE DI BIOETICA, «Dichiarazioni anticipate di trattamento. 18 Dicembre 2003, 4-5», su: http://www.governo.it/bioetica/pareri.html, 27/03/2014.