In questa seconda domenica di Quaresima il Vangelo ci narra l’episodio della trasfigurazione del Signore, che secondo la tradizione ebbe luogo sul monte Tabor, e pone in primo piano la Persona e l’opera di Dio Padre, presente accanto al Figlio invisibilmente ma realmente. Si spiega con ciò come sullo sfondo di questo Vangelo venga collocato un importante episodio dell’Antico Testamento, in cui la paternità viene posta in particolare rilievo. La prima Lettura, difatti, tratta dal Libro della Genesi, ci ricorda in effetti il sacrificio di Abramo. Egli aveva un figlio, Isacco, natogli in vecchiaia. Era il figlio della promessa. Ma un giorno Abramo riceve da Dio il comando di offrirlo in sacrificio. L’anziano patriarca si trova di fronte alla prospettiva di un sacrificio che per lui, padre, è sicuramente il più grande che si possa immaginare. Tuttavia non esita neppure un istante e, dopo aver preparato il necessario, parte insieme ad Isacco per il luogo stabilito. Costruisce un altare, colloca la legna e, legato il ragazzo, afferra il coltello per immolarlo. Solo allora viene fermato da un ordine dall’alto: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio” (Gen 22,12).
Ha qualcosa di sconvolgente questo evento in cui la fede e l’abbandono in Dio di un padre raggiungono l’apice. A ragione san Paolo chiama Abramo “padre di tutti i credenti” (cfr Rm 4,11.17). La fede del padre dei credenti è specchio nel quale si riflette il mistero di Dio, mistero di amore che unisce il Padre ed il Figlio. Il sacrificio di Isacco anticipa quello di Cristo: Dio Padre però non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha donato per la salvezza del mondo. Egli, che fermò il braccio di Abramo nel momento in cui stava per immolare suo figlio Isacco, non ha esitato a sacrificare il proprio Figlio per la nostra redenzione. Il sacrificio di Abramo mette così in rilievo che mai ed in nessun luogo si devono compiere sacrifici umani, poiché l’unico vero e perfetto sacrificio è quello dell’Unigenito ed eterno Figlio del Dio vivente che sul Tabor rivela proprio questo mistero. Difatti, dal Tabor, il monte della trasfigurazione, l’itinerario quaresimale ci conduce fino al Golgota. Da sempre Dio aveva parlato del Messia, inviato da Lui sulla terra per la salvezza dell’uomo, non con i tratti della gloria, del trionfo, del potere, bensì della sofferenza, dell’umiliazione, del rifiuto, della pecora muta dinanzi ai suoi tosatori, di ogni ingiustizia che si sarebbe abbattuta su di Lui, nel segno dei chiodi, della crocifissione, delle trafitture. I segni del Messia perciò erano inconfondibili: un castigato al posto di ogni uomo, in vece di tutti gli uomini. Da questo castigo, da questa umiliazione, dalla morte che ne sarebbe scaturita sarebbe nata la salvezza per tutto il genere umano. Gesù dice di sé queste cose e i suoi discepoli si scandalizzano. Per sostenerli nella vera fede, dinanzi a tre di loro, sul monte, si trasfigura. Mostra loro la sua divina essenza, tutta nascosta nella sua carne mortale. Manifesta anche l’eterna verità della sua missione. Lui deve andare a Gerusalemme. Deve compiere il sacrificio della sua morte. Il Padre viene in soccorso, in testimonianza e dice ai discepoli di ascoltare il suo Figlio diletto nel quale Lui si è compiaciuto. Ora che la fede è riportata nella sua verità, si può scendere dal monte e proseguire verso Gerusalemme, in attesa che il Figlio dell’uomo risusciti dai morti. La Quaresima è preparazione alla partecipazione personale a questo grande mistero della fede, che sarà celebrato nel Triduo della passione, della morte e della risurrezione di Cristo. E ogni credente cristiano deve prepararsi in modo conveniente e seguire Gesù, Figlio prediletto del Padre, fin sul Calvario, fin sulla Croce, per poter partecipare con Lui alla gloria della risurrezione e far risplendere nel mondo la vita e l’immortalità. San Paolo, nella seconda lettura, lo ribadisce con sublime chiarezza: si deve imitare Cristo Gesù, consacrare la propria vita al Vangelo, vivendolo tutto, annunziandolo, ricordandolo, offrendo la vita per la sua causa, perseverando in questo dono anche nella più grande sofferenza. Quando un discepolo di Gesù annunzia il Vangelo secondo pienezza di verità, dal mondo è fustigato, lapidato, flagellato, sputato, deriso, contrastato, perseguitato, condannato, ucciso. Ma lui non si deve arrendere, deve perseverare sino alla fine, sapendo che da questa sofferenza, la morte viene vinta e lo splendore della vita e dell’immortalità che Cristo è venuto a portare sulla nostra terra continua a diffondersi nel mondo e attrarre molte anime nella verità. La fede da sola non basta al missionario di Cristo Gesù. Assieme alla fede deve alimentarsi quotidianamente della grazia di Gesù Signore. Fede e grazia lo rendono forte in ogni sofferenza, nel martirio per la causa del Vangelo. Se il missionario cade dalla fede o dalla grazia, la sua missione finisce. Da missionario di Cristo diviene e si fa missionario del mondo.