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Chiesa

8Xmille. Dalla Cei 1 milione di euro per aiutare il Sud Sudan

Gigliotti Saveria Maria · 8 anni fa

«I primi sono i bambini. Ti accorgi che qualcosa non va perché non hanno voglia di giocare. Stanno lunghe ore accovacciati, poi non hanno più forza nemmeno per quello e si stendono. Il corpo si gonfia, non dura a lungo. Subentra la magrezza estrema. I movimenti si fanno sempre più lenti e faticosi. Fino all’immobilità totale». Così uccide la fame. Un termine che ha il suono di epoche lontane e remote. Invece, basta spostarsi di qualche parallelo verso Sud per vedersela di fronte. Don Dante Carraro, direttore del Cuamm, se l’è trovata faccia a faccia tante volte nella sua attività di medico e sacerdote in Africa. Cuamm è una delle Ong che gestiranno il milione di euro stanziato dai vescovi italiani per la crisi. Perché là, la fame è una realtà concreta e tangibile. L’intera fascia dal versante orientale fino al Corno d’Africa è in emergenza: 24 milioni di persone rischiano di morire d’inedia entro le prossime settimane. A preoccupare gli esperti internazionali, oltre al Sud Sudan, sono anche Etiopia, Kenya, Somalia, Nigeria, Uganda e Zimbabwe. L’11 marzo, il sottosegretario alle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, Stephen O’Brien, ha definito la crisi in atto in Somalia, Nigeria, Sud Sudan e Yemen – che non sta in Africa ma è ugualmente allo stremo –, «la peggiore dalla fine della Seconda Guerra mondiale». «A Juba non stiamo nemmeno più parlando di carestia. è fame. Cioè l’ultimo livello di malnutrizione grave. Quello che precede la morte. Almeno centomila sudsudanesi sono in questa condizione», racconta don Dante. Il 20 febbraio scorso, l’Onu ha dichiarato la «famine» (emergenza fame) nel Paese più giovane del Continente. L’ultima volta, lo aveva fatto sei anni prima, per la Somalia. Tre giorni dopo, all’Udienza generale del mercoledì, papa Francesco ha lanciato un appello per la nazione. «In questo momento è più che mai necessario l’impegno di tutti a non fermarsi solo alle dichiarazioni – ha detto Bergoglio –, ma rendere concreti gli aiuti alimentari». La successiva domenica, Francesco ha espresso il desiderio di recarsi in Sud Sudan insieme all’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. «Sarebbe una benedizione per il Paese. Una figura così straordinaria può aiutare molto ad attirare l’attenzione del mondo su quest’emergenza dimenticata», sottolinea il direttore del Cuamm. Già, il Sud Sudan – ma si può dire lo stesso per gran parte dell’Africa e dei fronti caldi nel conflitto per la sopravvivenza – resta invisibile sulla scena internazionale. Come se la fame che lo flagella fosse un fenomeno naturale. E non il prodotto di una guerra civile, in corso ormai da oltre tre anni, e dei cambiamenti climatici. Cioè della mano dell’uomo. Che può – e deve –, però, anche aiutare a risolverla. In segno di solidarietà alle popolazioni stremate, la Presidenza della Conferenza episcopale italiana (Cei) ha destinato ieri il milione di euro, dei fondi dell’8xmille, alle vittime della carestia sudsudanese. I finanziamenti andranno a sostenere realtà da lungo tempo impegnate nel terreno: Cuamm, l’ospedale Daniele Comboni di Wau e Caritas locale. E attive in prossimità dell’“epicentro della fame”, lo Stato di Unity e, in particolare, la contea di Panyijar. Gli scontri armati tra le truppe del presidente Salva Kir e i ribelli dell’ex vice Riek Machar hanno devastato le coltivazioni. Chi può scappa. «Molti si sono rifugiati nelle paludi di Nyal – aggiunge Giovanni Dall’Oglio, medico del Cuamm –. Dove l’unico cibo viene dalla pesca. Ma è insufficiente, come dimostra l’alto numero di malnutriti. Non si coltiva. Non ci sono scuole né centri sanitari per curare donne e bambini. Non c’è rete elettrica né elettricità». Buona parte della popolazione di Panyijar, però, non riesce nemmeno a fuggire per mancanza di forze. Da qui l’idea di assisterli con ospedali mobili che si spostino via fiume, per non incappare nei combattimenti. «Dobbiamo fare in fretta», conclude don Carraro. Anche, però, la geografia della fame si dilata. Allarmi sono già arrivati dalle regioni di Yirol e Gok. (da Avvenire)