«Essi sono la stirpe che il Signore ha benedetto». Carissimi fratelli sacerdoti, celebriamo oggi, con animo grato, la memoria annuale del giorno in cui Cristo Signore comunicò agli Apostoli e a noi il suo sacerdozio.
Un saluto particolare va S.E. Mons. Vincenzo Rimedio, Vescovo emerito, qui presente, e a Mons. Pasquale Luzzo, Vicario Generale, oggi impedito a partecipare.
Un pensiero affettuoso raggiunga tutti: diaconi, religiosi, religiose, fedeli laici.
Accogliamo questo giorno come un’occasione di grazia, per immergerci in Cristo, maestro, sacerdote e re.
Noi, come presbiteri, troviamo la nostra identità in Lui, che è la sorgente e il modello del nostro ministero.
Grati per il dono della vocazione, rinnoveremo le nostre promesse sacerdotali, con l’intenzione di donarci, rinunciando a noi stessi, per unirci intimamente al Signore Gesù.
Benedico il Signore per il dono di voi sacerdoti alla nostra Chiesa: molti siete giovani, pieni di risorse e di energie. E, come tutti sapete, il prossimo 7 maggio avremo altre quattro ordinazioni.
Un pensiero grato va anche per i sacerdoti più maturi, che da anni servono la Chiesa e sono chiamati a dare il loro contributo di collaborazione ed esperienza.
Sì, è veramente una grazia per noi celebrare l’Eucaristia in questo giorno santo. Ricordiamo ancora i confratelli che vivono la realtà della malattia: siamo certi che la loro offerta non è vana davanti a Dio.
Chiediamo al Signore di respirare quel clima di fiducia nel quale Gesù parlò ai suoi in questo giorno.
Questa esperienza di comunione profonda, sebbene attraversata dal tradimento di Giuda, fu, dopo la resurrezione, cementata da un più forte vincolo nello Spirito.
Oggi rinnoviamo dunque la nostra adesione al Signore che, consacrandoci con l’unzione, ha fatto di noi dei ministri della sua opera di salvezza nel mondo.
«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio...».
Possiamo applicare alla nostra vita di ministri e di apostoli questa parola del profeta, che Gesù compie. Al dono ricevuto corrisponda il nostro sì quotidiano.
Ci sostiene la parola del Salmo: «La mia mano è il suo sostegno, il mio braccio è la sua forza».
La nostra risposta sia pronta e convinta, per annunciare generosamente Cristo. Egli è l’essenziale della vita e non può essere diluito o disperso in iniziative pastorali “troppo umane”, secondo le mode del tempo.
Oggi è un giorno propizio per riflettere insieme sul dono del nostro sacerdozio ministeriale e, in particolare, sul valore dei tria munera: il dono di insegnare, di santificare, di governare.
Si tratta «di funzioni tra loro intimamente connesse, che reciprocamente si spiegano, si condizionano e si illuminano»[1].
In tal modo, quando il Vescovo e, a suo modo il presbitero «insegna, al tempo stesso santifica e governa il popolo di Dio; mentre santifica, anche insegna e governa; quando governa, insegna e santifica. Sant’Agostino chiama la totalità di questo ministero episcopale amoris officium»[2].
Sostiamo idealmente, oggi, nella sinagoga di Nazaret, e fissiamo il nostro sguardo su Gesù, mentre egli apre il libro e proclama la Parola per noi.
Tutti restano stupiti dall’insegnamento di Gesù, perché egli parla con autorità, cioè con quella autorevolezza che lo differenzia dagli scribi.
Gesù insegna. Dice parole che illuminano e rinnovano e santificano coloro che lo ascoltano. Le sue parole sono annuncio di amore e libertà, e al contempo sono insegnamento di amore e di libertà.
Così, colui che annuncia deve avere fiducia nella potenza della Parola che ha attraversato in primis la sua vita.
Solo la predicazione di un uomo, il cui cuore è sigillato dalla Buona Notizia di Cristo morto e risorto, diventa autorevole.
Senza una personale frequentazione della Scrittura, attraverso una lettura orante, meditata e gustata interiormente, non si può annunciare con passione e con quella convinzione necessarie per essere testimoni, per essere credibili. Di retorica ce n’è fin troppa!
Proseguiamo senza sosta nel nostro imparare per meglio insegnare; nel nostro ascoltare per riuscire a educare; nel nostro esercitarci a crescere per aiutare a crescere nella vita buona del Vangelo.
«Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza» (Is 50,5): questo atteggiamento del Servo del Signore dovrebbe caratterizzare noi sacerdoti.
La Parola va letta, meditata, pregata. Ma va anche contemplata.
Secondo quanto ribadisce Benedetto XVI nell’esortazione Verbum Domini, durante la cosiddetta contemplatio, momento della lectio divina, «noi assumiamo come dono di Dio lo stesso suo sguardo nel giudicare la realtà e ci domandiamo: quale conversione della mente, del cuore e della vita chiede a noi il Signore?»[3].
Prosegue il Papa: «è bene poi ricordare che la lectio divina non si conclude nella sua dinamica fino a quando non arriva all’azione (actio), che muove l’esistenza credente a farsi dono per gli altri nella carità»[4].
L’esegesi, lo studio, la preghiera sono un lavoro previo del presbitero, al fine di poter annunciare con autenticità, verità e passione.
Quando la Parola attraversa la nostra esistenza, essa agisce come una spada a due tagli (cfr. Eb 4,2). Se la lasciamo penetrare in noi, corpo e anima, essa farà in modo che il nostro comunicare (al di là delle capacità oratorie di ciascuno), diventi veramente vitale e quindi capace di raggiungere il cuore e la vita degli altri.
Se ti lasci trapassare tu da questa “spada”, sarà la Parola stessa a operare in virtù della sua intrinseca efficacia e della tua testimonianza.
Il fine della predicazione è quello di «generare, cioè formare Gesù Cristo nel cuore degli uomini, farlo vivere e farlo regnare in essi»[5].
Siamo chiamati non a far da padroni sui nostri fedeli, ma ad aiutarli ad aderire liberamente e consapevolmente al Vangelo e a leggere la propria vita alla luce della Parola, sotto l’azione dello Spirito, che agisce anche nella loro vita.
Questo richiede tanta umiltà in ciascuno di noi, nella certezza che Dio ci precede sempre. Il cuore di un pastore, nutrito dalla Parola e dai Sacramenti, facilmente si accorge dei passi di Dio.
Un’autentica predicazione dona al fedele la possibilità di lasciarsi interpretare la vita dalla Parola, per cui egli impara ad individuare ciò che Dio opera nella sua vita.
Inoltre, l’instaurazione di rapporti di fede con i fedeli farà arretrare nei presbiteri la tentazione di risolvere il proprio sforzo pastorale in relazioni esclusivamente umane, amicali ma senza sguardo in “alto”, che legano le persone a sé più che a Cristo.
Mi permetto ora di porre l’attenzione su alcuni rischi che si oppongono ad un vero annuncio, ad un’autentica predicazione.
Pensiamo ad esempio al moralismo, ai discorsi intellettualistici, alla ricerca non rara di consensi, al mettere in vari modi al centro la persona del predicatore.
Pensiamo ancora alle strumentalizzazioni della Parola, per cui se ne fa un “appiglio” per dire ciò che si vuole.
Per non parlare poi, delle invettive infuocate che pretendono di essere parole forti, provocatorie e invece sono di pessimo gusto e mettono confusione nel cuore dei nostri fedeli.
Occorrono dunque sapienza ed equilibrio per capire la scelta spirituale da assumere.
Inoltre, preparare l’omelia insieme, come fanno alcuni confratelli, è certamente un aiuto importante per attualizzare la Parola e per lasciarsi prendere dalla passione, dall’autorevo-lezza, dalla sapienza con cui Gesù stesso ha annunciato il regno di Dio e ci ha mostrato il Padre.
Dice Gesù: «Io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17,26). Possiamo dire che «far conoscere il Padre, con tutto ciò che questa conoscenza implica, è lo scopo ultimo di tutto l’insegnamento di Gesù. [...] Questa esperienza della paternità divina deve spingere i discepoli all’amore verso tutti, nel quale consisterà la loro “perfezione” (cf. Mt 5,45-48; Lc 6,35-36)»[6].
Il presbitero, come dicevo, è configurato alla persona di Cristo, in relazione profonda con Lui. Nella coscienza di essere anche inviato da Lui, come Egli lo è dal Padre, il sacerdote sviluppa la dimensione universale e quindi missionaria della sua vocazione.
Il presbitero sposa “affettuosamente” l’Evangelo e ne diventa quindi un annunciatore instancabile, pronto a perdere la sua vita perché risuoni la Buona Notizia per tutti gli smarriti di cuore.
In parrocchia, perciò, non si accontenterà di celebrare l’Eucaristia, riducendo ad essa tutta la vita pastorale. San Paolo direbbe: «Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo» (1Cor 1,17).
L’esercizio del munus sanctificandi è legato alla capacità di nutrire, rigenerare e fortificare attraverso i sacramenti, in particolare l’Eucaristia. Il nostro popolo ha il senso del sacro, ma questo deve essere innestato e ancorato alla vita, per un’esistenza autenticamente cristiana, perché il Vangelo sia incarnato.
Tra poco rinnoveremo il nostro sì ad «essere fedeli dispensatori dei misteri di Dio per mezzo della santa Eucaristia e delle altre azioni liturgiche».
Diventino esse occasione per trasformare anche noi ministri, il cui cuore contempla sempre il Signore.
Andiamo ora al munus regendi, che è sempre più complesso nella nostra società. Ai parroci in particolare sono richieste doti e capacità organizzative e di governo non piccole e una maturità nelle relazioni che si acquisisce con gradualità, perché tutto il popolo sia raggiunto dalla parola di salvezza e da un’azione di guida amorevole ed efficace.
La nostra testimonianza, le nostre scelte, anche in parrocchia, devono essere trasparenti, luminose, aperte a tutti, ben consapevoli che il primo pastore è il Vescovo, al quale spetta la responsabilità di indicare le vie pastorali.
La “carità pastorale” si esercita verso tutti: verso i battezzati che devono riscoprire il senso della vita cristiana e anche verso coloro che non conoscono Dio.
Prestiamo maggior attenzione all’azione del Santo Padre, a quella della Chiesa, che va alla ricerca dei cosiddetti “cristiani della soglia” e che si spinge nel “cortile dei gentili”. Evitiamo di ritrovarci a curare soltanto i vicini.
La Chiesa va contemplata come il pittore ammira la sua tela: da lontano, per coglierne anche la periferia. Questo farà della nostra pastorale un vero capolavoro. E infonderà in noi l’amore alla pecora perduta. Essere contagiati da tale amore non dà tregua al cuore del pastore, e anzi mette le ali alla sua azione e predicazione.
La missionarietà caratterizzi la vita delle nostre parrocchie e strutture pastorali: impareremo così a rinnovarci sempre, a non indugiare nei piccoli o grandi successi ottenuti, a non fermarci alla pastorale ordinaria, ma ad avere una sana inquietudine evangelica per raggiungere proprio tutti.
Il grande dono della Visita pastorale di Benedetto XVI nella nostra Diocesi ci spinga a dilatare i nostri cuori in un orizzonte che sia davvero universale.
Non dimentichiamo infine di considerare i poveri e i più deboli come a noi «affidati in una maniera speciale»[7]. Giovanni Paolo II ricordava ancora che i presbiteri «devono essere capaci di testimoniare la povertà con una vita semplice e austera, essendo già abituati a rinunciare generosamente alle cose superflue»[8].
Lo Spirito Santo, che è il grande evangelizzatore e maestro interiore, accenderà in noi quel fuoco ardente, necessario perché il Vangelo venga trasmesso, perché il profumo di Cristo, che il sacro myron oggi ci ricorda, fluisca, si diffonda, risani questa nostra generazione.
Giovanni Paolo II, Pastores Gregis, n° 9.
Ibidem.
Benedetto XVI, Verbum Domini, n° 87.
Ibidem.
Cfr. Pubblicazione postuma J. Eudes, Le predicateur apostolique, 1907, tomo 4, p. 12.
Congregazione per il clero, Lettera circolare L’identità missionaria del presbitero nella chiesa quale dimensione intrinseca dell’esercizio dei tria munera, 29 giugno 2010, n° 2.
Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, n° 30.
Ibidem.