La Calabria dell’antropologo Vito Teti: una sorta di laboratorio per approfondire il concetto di “erranza”, «una condizione storica e antropologica del Sud, forse di tutti i Sud del mondo, forse dell’intera umanità nel corso della sua lunga preistoria e della sua storia».
Vito Teti è un’autorità nel campo dell’antropologia, non solo in Italia. Calabrese di San Nicola da Crissa, è ordinario di Antropologia culturale al Dipartimento di studi umanistici dell’Università della Calabria, dove dirige il Centro di iniziative e ricerche “Antropologie e letterature del Mediterraneo”, come pure il Centro demo-antropologico “Raffaele Lombardi Satriani”. Responsabile, tra l’altro, della sezione italiana dell’Associazione europea di antropologia dell’alimentazione e membro di numerosi organismi scientifici, italiani e stranieri, è autore di svariate ricerche sul campo relativamente alla civiltà contadina calabrese. Scrittore prolifico, ha avuto numerosi riconoscimenti per la sua attività saggistica e letteraria. L’ultimo suo libro edito da Rubbettino, Terra inquieta (un ulteriore omaggio alla sua terra), offre l’occasione per un’intervista.
Lei ha definito il suo ultimo lavoro «un libro inquieto e mobile come la terra che racconta e che, forse, esprime il carattere del suo autore». Chi è Vito Teti? Come si descrive? In che cosa si identifica con la Calabria?
«L’inquietudine, la curiosità, il desiderio di vagare e di “errare” mi accompagnano fin da bambino. Mia madre soleva ripetermi: “Non hai rigettu” (Non hai quiete, non ti fermi mai). Credo che molto della mia inquietudine sia dovuta alla visione delle figure erranti (uomini, zingari, viandanti, stagnini, venditori, ambulanti, animali, asini) negli anni della mia infanzia, ma soprattutto a un vissuto di partenze e fughe in tutte le parti del mondo di intere famiglie, dei miei compagni di scuola e di giochi. Mio nonno materno era stato emigrato, con altri suoi fratelli, negli Stati Uniti e di lui ascoltavo da mamma storie, avventure, fatiche, conquiste. Mio padre tornò da Toronto, dove era emigrato quando io avevo poco più di un anno, quando di anni ne avevo otto. Termini come nostalgia, lontananza, melanconia, partenza, ritorno sono entrati presto nel mio vocabolario. Da grande, quando la mia inquietudine si manifestava in mille forme, cominciai a comprendere che non era solo un fatto individuale e caratteriale, ma che andava legata alla geografia, alla storia, all’antropologia di una terra in fuga, inquieta, mobile, che cammina e si sposta per terremoti, frane, emigrazioni. Naturalmente questo contesto ambientale e culturale inquieto è un riferimento importante, poi ognuno organizza e ridisegna identità e appartenenza nelle forme più varie. E tuttavia il senso dell’altrove, il non sentirsi mai in alcun posto, la nostalgia del mondo perduto o sognato sono tratti comuni ai calabresi dell’esodo, emigrati, e, diversamente, a quelli rimasti. Fuga, stanzialità, partenza, ritorno, lontananza, vicinanza sono termini e concetti da accostare e da mettere in rapporto per cercare di capire chi siamo».
Sembra di capire che “Terra inquieta”, libro non occasionale ma dalla lunga gestazione, significhi una tappa importante nella sua riflessione sulla Calabria e i calabresi. Cosa aggiunge agli altri testi da lei dedicati alla sua terra? La Calabria le pare ora meno inafferrabile?
«Ha ragione, nessun libro è occasionale, anche se può essere occasionale la scelta di pubblicarlo o meno. Almeno a partire da "Le strade di casa", "Il paese e l’ombra", Il senso dei luoghi ho cominciato a guardare e a raccontare la Calabria (e il Sud d’Italia) mettendomi in gioco, decostruendo la pesantezza di tanti sguardi precedenti, superando l’idea dell’oggettività scientifica. L’antropologia, che ha una storia, un metodo e una teoria, non può che essere anche dialogo, partecipazione, voglia di incontrare l’altro, di mettersi in discussione, di capire e di “comprendere”. Allo stesso modo la letteratura non può definirsi tale se non ha una profondità e una tensione antropologica. In un certo senso potrei dire che la “biografia di una terra” è anche una sorta di autobiografia, che il viaggio, lungo o corto, all’esterno è anche un viaggio dentro sé stessi, nelle proprie luci ed ombre. Non so cosa aggiunge agli altri questo libro, posso solo dire che è il frutto di tante letture e di mille viaggi, di soste e incontri, di disincanti e speranze: i racconti, le memorie, le riflessioni che formano il suo contenuto (metterei in primo piano anche le foto) potrebbero costituire una sorta di “recherche dei luoghi e del tempo perduto” di questa terra che a volte mi pare di avere compreso e che qualche volta amo e altre volte mi fa indignare – odio e amore sono inseparabili –, ma che non finisce mai di stupire e di incantarti. Guai a pensare che sia definitivamente afferrabile, ma guai anche a rinunciare a capirla e a comprenderla con la scusa della sua radicale diversità e della sua irriducibile lontananza. Non servono né sguardi presuntuosi, né atteggiamenti rinunciatari. Servono onestà intellettuale, senso etico, umiltà e vocazione al dialogo: a conoscere e ad accogliere gli altri e anche l’altro che è in noi. Non servono slogan e scorciatoie, ma pazienza, misericordia, pietas, nostalgia utopica e capacità di immaginare e progettare il futuro, lasciandoci alle spalle i tratti peggiori della nostra storia e recuperando, attualizzandoli, i mille pregi e le mille virtù delle genti di Calabria».
Per cogliere l’identità di una terra e del suo popolo è necessario uscire da sé, muoversi nei luoghi e a contatto con le persone: ciò che lei ha fatto lungo una intera vita. Quando parla di antropologia della “erranza” meridionale cosa intende dire?
«L’erranza è una condizione storica e antropologica del Sud, forse di tutti i Sud del mondo, forse dell’intera umanità nel corso della sua lunga preistoria e della sua storia. L’uomo è inquieto perché viaggia o viaggia perché è inquieto? Siamo nostalgici perché partiamo o partiamo perché abbiamo nostalgia? Penso che una riflessione sull’erranza meridionale, fatta anche di narrazioni e scritture le più varie, possa contribuire, con la sua peculiarità storica, a dirci qualcosa della nostra vita individuale e di “popolo”».
Nella sua analisi di antropologo lei si avvale di quattro percorsi simboleggiati da altrettante linee: ondulata, curva, retta, spezzata.Come mai ha dato questa struttura al suo libro? Vi sono altri modi per dire ciò che è peculiare e originale della Calabria?
«Tutte le storie si somigliano e tutte sono diverse. Tutte le terre sono simili e tutte sono differenti. La storia e la cultura, oltre alla geografia, rendono uniche e irripetibili le vicende dei diversi popoli. Sarebbe lungo l’elenco delle peculiarità, delle specificità, dei tratti originali della Calabria e dovrei ricordare luoghi, paesaggi, miti, riti, leggende, prodotti e così via, ma preferisco privilegiare il suo essere un luogo del mondo, il suo non essere periferia o marginalità, l’aver dato, nei momenti migliori, un grande apporto alla tradizione occidentale e alla cultura nazionale. Vorrei considerarla in una cornice unitaria e aperta, nella sua vocazione dialogica e ariosa. Segnalare le peculiarità di questa terra spesso significa ridurla a una dimensione locale e angusta, o alimentare lamentele e rivendicazioni: invece bisogna cogliere quei tratti locali che possono immetterla nei circuiti nazionali e globali. Se si abbandona la “retorica” e si insegue la “persuasione”, forse, la Calabria riuscirà a parlare agli altri e ai suoi abitanti, non solo ad autosservarsi e a compiangersi. La responsabilità è nostra: la colpa non è altrove e degli altri. Dire questo non significa ovviamente negare una storia di devastazioni, oppressioni, dimenticanze di cui i meridionali sono stati vittime. Questa constatazione serve per capire, ma non può diventare un alibi per non cambiare e non diventare protagonisti del nostro destino».
Lei ha accennato anche alla Calabria come ad una sorta di laboratorio nel quale si sperimentano fenomeni e processi non solo locali, ma anche meridionali, mediterranei ed europei. Può approfondire?
«Brevemente. La Calabria anticipa, nel bene e nel male, fenomeni che poi hanno una dimensione globale. La figura dell’inquietudine sembra ad esempio una sorta di metafora per raccontare altre fughe, altri esodi e spaesamenti del mondo, di un mondo a noi troppo vicino, di un mondo che arriva da noi. Quello che sapremo fare per arrestare lo svuotamento e il declino delle zone interne, per curare e riguardare i luoghi, per tutelare l’ambiente e salvare il territorio, per accogliere gli altri potrebbe essere significativo per gli altri. Questo presuppone consapevolezza, responsabilità, etica, progettualità della classe politica e dei gruppi dirigenti in generale, compresi quelli intellettuali. E qui mi fermo perché il quadro non è davvero incoraggiante e bisogna affidarsi alla speranza». (da Città Nuova)
Cultura
Vito Teti e la sua Calabria
Redazione · 9 anni fa