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Vita diocesana

“Per amore non tacerò”: il grido di Don Peppe Diana per il Natale del 1991

Paolo Emanuele · 10 anni fa

Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.

20 anni fa veniva ucciso dalla camorra Don Giuseppe Diana. Era il giorno del suo onomastico, il 19 marzo 1994, e mentre in sacrestia si preparava a celebrare nella Messa il sacrificio di Cristo, il parroco di Casal di Principe offriva la propria vita per amore della sua comunità. Pagava il prezzo umanamente più alto per non aver taciuto, per essersi fatto voce del grido di giustizia e di libertà di un territorio che era diventato “feudo” del clan dei Casalesi.

Don Giuseppe Diana aveva “alzato la voce con forza” e lo aveva fatto “per amore del suo popolo”. Ricordando nel tempo di Avvento la figura di Giovanni Battista, ultimo dei profeti dell’Antico Testamento e Precursore del Messia, vale la pena rileggere quel documento che Don Peppe Diana aveva promosso e che era stato diffuso da tutte le parrocchie della Forania di Casal di Principe per il Natale del 1991.

“Per amore del mio popolo non tacerò”, era il titolo della lettera. Un documento “profetico” scritto in anni difficili per quel territorio, anni in cui “il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli” e la Camorra appariva la sola forza deviata in grado di “riempire un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi”.

Di fronte a un quadro così drammatico, mentre il boss Francesco Schiavone detto Sandokan consolidava il potere della camorra casalese facendola penetrare nell’economia legale e nelle amministrazioni pubbliche, Don Peppe non si pone tanto dei problemi di natura sociologica, né si mette a organizzare convegni e tavole rotonde; il parroco di Casal di Principe rilancia alla Chiesa di Aversa una domanda che dovrebbe sempre animare la vita di un cristiano: come fare ad essere “voce profetica” in una realtà che vive come se Dio non ci fosse?

Essere profeti come Giovanni Battista, “voce che grida nel deserto” e che in nome della verità non ha paura di andare sotto casa del governatore romano e gridargli “non ti è lecito”, un grido che risuona nella storia contro ogni abuso del potere umano che disprezza ogni legge divina umana. Essere “voci profetiche” come Papa Francesco ha chiesto ai vescovi europei, chiamati a essere “una Chiesa in uscita, in movimento dal centro verso la periferia per andare verso tutti, senza paure, senza diffidenze e con coraggio apostolico”.

Don Peppe Diana mette nero su bianco l’esigenza della Chiesa di Aversa e, possiamo dire, di tutta la Chiesa di farsi “voce profetica” anche quando la complessità dei problemi potrebbe generare la tentazione di tacere o di ripiegare su falsi accomodamenti.

“Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno, Dio ci chiama ad essere profeti”, si legge nella lettera: “il profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio; il profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo; il Profeta invita a vivere e lui stesso vive, la Solidarietà nella sofferenza; il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia”

Per Don Peppe Diana, l’impegno sociale della Chiesa non era un’attività a se o un modo come un altro per avere più visibilità, ma era strettamente collegata alla missione profetica che caratterizza ogni credente e tutta la Chiesa nel suo complesso. E’in nome di questa “missione profetica”, che ha il suo fondamento nella Parola di Dio, che il parroco di Casal di Principe chiedeva alla Chiesa di “farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio” e chiedeva ai sacerdoti di “parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa”. Ma la profezia, proprio perché aperta alla prospettiva della speranza cristiana, non può fermarsi alla imprescindibile denuncia del male: l’annuncio evangelico deve “concretizzarsi nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili”

“Per amore del mio popolo non tacerò”. Come Isaia e come il Battista, Don Peppe Diana e tanti profeti del nostro tempo scelgono di non tacere, di denunciare l’ingiustizia e di farsi annunciatori di speranza, di novità. Ed è l’Amore, amore per la verità e per gli uomini, che fa sempre la differenza tra i “falsi profeti”, tra i professionisti delle parate di piazza che gridano per avere 2-3 minuti di visibilità, e i veri profeti, quelli che sanno bene quando è tempo di tacere e quando è tempo di alzare la voce con forza. Profeti che fanno risuonare, tanto con la loro voce quanto con il loro silenzio orante quando è necessario, la voce di Dio aprendo sempre alla speranza i cuori degli uomini.