·

Cultura e Società

Dall’Expo al Mose. L’uomo di fronte alla mazzetta sceglie se servire “Dio o il denaro”

Paolo Emanuele · 10 anni fa

8 maggio. Per qualche ora, ai piani alti dell’Ufficio Internazionale delle Espozioni, sarà circolata la convinzione che, dando ragione ai vari luoghi comuni, probabilmente non era il caso di scegliere l’Italia per l’Esposizione Universale del 2015. Come in una commedia che mette insieme tutti i peggiori stereotipi sugli Italiani, i vertici dell’Expo milanese finiscono in manette: coinvolti a vario titolo nell’inchiesta della procura meneghina, sono esponenti politici di tutti gli schieramenti, alcuni dei quali ripescati dalla stagione di Tangentopoli. Quasi un mese dopo, le indagini dei magistrati puntano i riflettori su Venezia, portando alla luce il sistema di fondi neri, tangenti e false fatture con cui - sostengono gli inquirenti - si tenevano in piedi gli appalti collegati al Mose, l’opera colossale da 5 miliardi di euro che entro il 2017 proteggerà la città dalle acque alte. Manette eccellenti, tra gli altri, per il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e – in clima bipartisan – per l’ex ministro Giancarlo Galan per il quale è stata richiesta l’autorizzazione all’arresto alle commissioni parlamentari competenti. Si parla di tangentopoli veneta e milanese. Tra un’inchiesta e l’altra, c’è l’Italia delle mazzette e delle bustarelle all’ordine del giorno, un mosaico di illegalità quotidiane che – secondo l’ultimo rapporto dell’Ong Trasparency International, colloca l’Italia al 69°posto nella classifica mondiale per la trasparenza della pubblia amministrazione, peggio di Arabia Saudita, Ghana e Cuba, con un punteggio di 43 su 100. Un vizio “tutto italiano”? Un’illegalità diventata prassi de facto per sciogliere un sistema fatto di lacci e lacciuoli della burocrazia? Senza entrare nel merito delle singole vicende, è possibile tracciare alcune linee che collegano una vicenda all’altra per tentare di capire cosa gira nella testa e soprattutto nel cuore di chi porge una “bustarella” o promette un posto di lavoro e di chi, venendo meno all’imparzialità della funzione pubblica, cede di fronte alla prospettiva del guadagno facile. Parliamo di “cuore” non a caso, perché è lì, come ci ricorda il Vangelo, che ha origine la spinta dell’uomo al male in tutte le sue forme, anche nella gravissima forma della corruzione. Cosa porta gli uomini a venerare quella che Papa Bergoglio ha chiamato la “dea tangente”, a vendere la propria dignità in cambio di una mazzetta? Una prima motivazione viene fuori dalla particolarità del contesto italiano ed è il legame morboso, il rapporto deviato tra politica ed economia. I grandi appalti, quelli attorno ai quali girano maggiori quantità di denaro, sono opere pubbliche e su questi grandi affari si costruiscono gli intrecci tra politica, imprenditoria e pubblica amministrazione che, ignorando tanto la legge dello Stato quanto quella della coscienza, danno vita a un sistema che ha una sola regola: tutti devono guadagnarci, aggirando la legge. E’il vizio tipicamente italiano di un’imprenditoria che non si è mai percepita come realtà a sé rispetto al potere pubblico, con il quale ha sempre cercato di fare affari, considerandolo un pozzo sicuro a cui attingere. C’è un secondo vizio “all’italiana” dietro questo sistema: il prevalere dell’interesse privato o familiare sull’interesse pubblico, la scarsa inclinazione a rispettare regole che dovrebbero garantire gli interessi di tutti e non solo quelli individuali. Dietro la corruzione che divora l’economia legale, c’è l’Italiano che aggira la legge perché “tanto lo fanno tutti”, c’è il “papà” di buon cuore che deve sistemare il figlio da qualche parte, c’è l’individualismo di chi non si sente parte di una comunità più grande ed è interessato solo a massimizzare i propri interessi personali Nell’eterno dilemma se la colpa sia dei corrotti o dei corruttori, torniamo di nuovo al “cuore” della persona umana, alla singola persona che si trova nella situazione di dover porgere o di dover incassare. Di fronte a quella bustarella o a qualsiasi forma prebenda, si è da soli, si è di fronte alla propria coscienza libera di scegliere. Se il sistema ha le sue criticità e se le leggi sono necessarie per contrastare il reato, ciò che serve è innanzitutto lo scatto “etico” del funzionario pubblico, dell’imprenditore e del professionista. E parlando di etica non ci riferiamo a una visione ideale dell’economia, estranea alla realtà. Ci riferiamo alla scelta esistenziale di ogni persona: per cosa vale la pena vivere? Nessuno ti impone di accettare una mazzetta o offrirla, così come nessuno impone a un altro di fare del denaro il proprio idolo e la propria ragione di vita. Sono responsabilità dei singoli che, messe insieme, costruiscono quell’“etica pubblica” tirata in ballo ogni qualvolta ci si trova di fronte a vicende giudiziarie simili. Etica pubblica che si concretizza in una scelta che è prima di tutto individuale: scegliere chi servire, scegliere per cosa e per chi “ne vale la pena”. Per questo, pensiamo sia troppo semplice cantare vittoria contro la corruzione di fronte a maxi retate o arresti eccellenti. Si ricompone un ordine sociale corrotto nelle sue pieghe più interne ristabilendo una cultura del bene comune, del rispetto delle regole, della consapevolezza che il “così fan tutti” di troppi fa proliferare un’illegalità diffusa che vizia il libero mercato e non consente di produrre effetti positivi in termini di crescita e occupazione. Tutto questo, a partire da una scelta individuale, da quell’uomo che immaginiamo di fronte a una mazzetta posta sul banco. Quell’uomo chiamato ogni giorno a decidere se servire “Dio o il denaro”, a scegliere dove collocare “il proprio tesoro”.