“Amo la vita. Tutto il mio tormento consiste nella paura di non poterne godere abbastanza a lungo e appieno. Le giornate mi sembrano troppo brevi. Il sole tramonta troppo presto. Le estati finiscono così in fretta. La morte arriva così presto”. Sono le parole di Irène Némirovsky, una delle penne più geniali del novecento, ebrea uccisa dai nazisti ad Auschwitz nel 1942.
Si tratta di una confessione autobiografica, da rileggere a Lamezia Terme, nei giorni in cui si fa avanti la riflessione sul cosiddetto “testamento biologico”. Irene Némirovsky usa una frase oggi non molto comune: “Io amo la vita” . Che forza in queste parole! La stessa che si incontra in chi lotta per vivere, resistendo persino al lager nazista, perché ha dentro il desiderio di assaporare a pieno il gusto dei propri giorni. Infatti, per tutti noi la morte, da sempre, appare terribile proprio perché non dà il tempo neanche di dirsi arrivederci, mentre la vita chiede sempre più tempo. Ma, per quanto la cosa non ci garbi, noi non abbiamo alcun potere di prendere decisioni sui momenti centrali della nostra vita. Non sceglieremo mai se nascere o non nascere oppure di non morire, così come non possiamo controllare l’amore di un altro. Potremmo esercitare questi diritti sempre sul nostro prossimo, ma mai su noi stessi e per poterlo fare, ci sentiamo autorizzati a dire che è un nostro diritto. D’altro canto, ci illudiamo di essere padroni del nostro corpo, come dei tanti aggeggi che occupano il nostro ambiente. Ma in ultima analisi è la più becera delle illusioni che ci siamo fatte. Onestamente viene da chiedersi, perché non si parla di eutanasia in Bangladesh, in Iraq, nella Repubblica Centraficana? Certo, dove si lotta per vivere ogni giorno, sembra assurdo consumare energie per assicurarsi la morte. Infatti, la recente discussione innescata a Lamezia, fa nascere una domanda di fondo: a Lamezia per cosa lottiamo? Dalla risposta che ognuno di noi saprà dare, dipenderà anche il livello di civiltà che questa comunità è stata in grado di raggiungere. E giusto per rassicurare un po’tutti, le chiese di Lamezia non c’entrano, dove per chiese, leggasi Chiesa! Eppure nel non lontano 2008, il Cardinale Bagnasco aveva auspicato che il Parlamento Italiano varasse con il “più ampio consenso” una legge sul fine, capace di dare valore giuridico alle dichiarazioni di volontà dell’ammalato rese in forma esplicita e certa sui trattamenti sanitari, che non comprendono alimentazione e idratazione. Per intenderci, quindi i cattolici non sono contro il testamento biologico, ma ovviamente contro ogni eutanasia evidente o nascosta. Ma al di là della fede e di ogni credenza, chi ci assicura che errori di malasanità non avvengano in casi dove è praticata l’eutanasia? E se un paziente decide di non morire, dovrà sentirsi ripetere: Perché non ti sei fatto uccidere? è bello discutere dei massimi sistemi, ma se la vita ti scivola dalle mani, l’unica cosa che senti di dire è “Io amo questa vita”. Nei paesi dove l’eutanasia è legalizzata, dobbiamo saperlo, la subiscono anche persone che non sono in grado di intendere e di volere, in quanto la famiglia decide al posto loro: «La mamma non vorrebbe andare avanti così». Di fatto, il 32 per cento delle morti per suicidio assistito sono non-volontarie. Ciò che sorprende del regolamento approvato dal Consiglio Comunale, - non me ne vorranno i signori che l’hanno preparato - è l’estrema futilità e leggerezza con cui si affronta il tema della vita e della morte. Il regolamento, purtroppo è molto scarso, oltre che immorale. Che cosa si intende per malattia o trauma irreversibile e invalidante? Qual è la misura dell’invalidità, per poter decidere della morte? Inoltre, stando al testo, bisognerebbe negare ogni terapia, e questo sinceramente sembra semplicemente assurdo: e se servono dei sedativi, non si può fare? Secondo il regolamento del comune: NO. La vita e la morte non sono dei dati anagrafici, sono dei fatti, degli eventi più vicini e legati di quanto possiamo immaginare. Per questo, un famoso psichiatra statunitense, Ned Cassem, scriveva: «Chiedere di morire è sempre un atto che dice alle altre persone: “Non vi importa di me”».