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Liturgia

L'amore di Dio verso l'uomo è eterno, mai verrà meno. Commento all'ottava Domenica del tempo ordinario

Cesare Natale Cesareo · 11 anni fa

L'amore di Dio verso l'uomo è eterno, mai verrà meno. Dio, infatti, è un Padre che ama i suoi figli ed è sollecito per il loro bene, così come è attento a tutte le sue creature: “nutre gli uccelli del cielo” e “veste i gigli del campo”, conferendo ad essi una bellezza e uno splendore che superano quelli delle corti di questo mondo.

Dubitare dell’amore di Dio, che è di gran lunga superiore alla tenerezza che una madre ha nei confronti del suo bambino, è un peccato. “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo grembo? Anche se vi fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15).

L'uomo invece nel suo spirito ribelle, malato d'autonomia e di emancipazione, sovente lo rifiuta e lo rinnega. La sua vita però scaturisce dal legame "naturale", creazionale con il suo Creatore, per cui, trovandosi nella "non-vita", nella "morte", pensa che Dio lo abbia abbandonato.

La Scrittura, difatti, insegna ancora che nonostante l'amore eterno di Dio per l'uomo, questi, se oltrepassa gli stessi limiti del male, peccando contro lo Spirito Santo, si pone irrimediabilmente fuori della grazia e del perdono, finisce nella morte per sempre. Anche in questo caso l'uomo è il solo responsabile, avendo reso il suo cuore più duro della pietra, contro cui neanche la grazia del Signore Dio può. Ma Dio manifesta ancora il suo amore all'uomo attraverso i suoi ministri, che Egli ha costituito dispensatori dei suoi misteri di grazia e di verità, mediatori in Cristo Gesù del dono della Nuova Alleanza. E Paolo vuole essere considerato ministro ed amministratore fedele in questo suo servizio al dono di Dio e alla parola. Il resto lo farà il Signore. Ma Egli lo farà verso coloro che vivono in questa fedeltà. Egli darà pane e cibo. Acqua e vestito. Per oggi. Domani sarà un altro giorno. Ci saranno altre pene e altre inquietudini. A ciascun giorno è sufficiente la sua pena. L'uomo si deve sì preoccupare, ma di essere fedele al suo Signore.

Per essere fedele al Signore, occorre cercare il Regno di Dio e la sua giustizia vivendo fedelmente la Sua Parola. Questo è l’insegnamento di Gesù che troviamo nel Vangelo di questa domenica.

Il discorso della montagna che ci ha accompagnati nella liturgia di queste prime domeniche del tempo ordinario, giunge oggi in certo senso alla sua conclusione. “Cercate prima il regno di Dio...”: con queste parole Gesù vuole introdurre i suoi discepoli nella conoscenza di ciò che veramente conta e perciò deve essere posto a fondamento della vita personale e comunitaria.

Il regno di Dio, pienamente rivelato in Cristo, si identifica col dono della comunione, alla quale Dio invita e ammette gli uomini che lo riconoscono nella verità e fedelmente lo servono. Un dono gratuitamente offerto, da accogliere nella fede come germe di vita nuova e da far crescere fino a che non giunga a maturazione, allorché Dio sarà tutto in tutti.

Un’esperienza, nella quale si è introdotti e si vive, nella misura in cui Dio e la sua volontà sono collocati al primo posto nella scala dei valori e degli obiettivi da perseguire. Un bene da desiderare e ricercare quotidianamente vivendo “secondo giustizia”, testimoniando nella propria vita la sovranità del Padre celeste e orientando a Lui e al suo progetto di comunione tutti gli avvenimenti e le realtà terrene.

Essere discepoli di Cristo comporta quindi l’impegno di compiere con coraggio la scelta prioritaria di Dio e del suo Regno. Una scelta che consente a chi liberamente la fa, illuminato e guidato dallo Spirito, di realizzare tutto il resto: di discernere con sapienza evangelica ciò che veramente conta nella vita per costruire la comunione; di soppesare nel modo giusto, e cioè nell’ottica del progetto di Dio, i beni creati e la stessa attività umana.

Gesù pone dunque i suoi di fronte a una scelta radicale: o Dio e il suo Regno, oppure la ricchezza, il potere e il successo. Quando tutte queste cose vengono considerate “beni assoluti”, si trasformano inevitabilmente in “idoli” e l’uomo finisce per diventarne schiavo. E chi è schiavo delle ricchezze diventa schiavo anche di colui che il Cristo ha definito principe di questo mondo. L’uomo perde così il senso pieno della sua esistenza, è diviso in se stesso e diviene artefice di divisioni e di ingiustizia nella società di cui è cittadino.

E a motivo di ciò, oggi, si vive in un clima di secolarismo, che fa perno più sull’“avere” che sull’“essere”. Ciò crea in molti una sete mai paga di possesso e una corsa sfrenata verso la ricchezza, considerata talvolta come unico fattore per contare nella società. D’altra parte lo sviluppo disordinato e il consumismo esasperato ingenerano la convinzione che si valga in base a ciò che si produce e a ciò che si possiede. Sono le nuove forme del peccato di idolatria, che mentre cancellano Dio dall’orizzonte della propria vita, determinano anche situazioni drammatiche di emarginazione e di ingiustizia, che sono in aperto contrasto col Regno di Dio e col progetto di fraternità e di comunione rivelatoci da Cristo, e per il quale Egli ha dato la vita.