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Cultura e Società

Lamezia chiede giustizia per Tramonte e Cristiano

Paolo Emanuele · 11 anni fa

Sit-in davanti al Tribunale La notizia sta tutta intera in una data: 24 maggio. Tanto basta per riavvolgere un nastro lungo ventidue anni, da quel 24 maggio del 1991 in cui un brutale assassinio strappò alla vita l’innocenza di due concittadini, Francesco Tramonte e Pasquale Cristiano, netturbini trucidati nel mezzo di una sequela di irrazionale brutalità. Eppure in questo 24 maggio 2013 la notizia non è tanto legata agli omaggi della commemorazione, al come gestirne il ricordo, al come riannodarne la narrazione perché la storia s’infranga sul desiderio che non accada mai più.

Altri momenti hanno, infatti, tracciato il profilo della giornata: quello della protesta e, ancor più, quello di una risposta a questa protesta. Sì, perché questo 24 maggio è stato diverso: il ricordo si è sollevato impetuoso, svegliandosi dal torpore delle corone precariamente aggrappate alle iscrizioni commemorative, e ha voluto risposte, le ha pretese, e subito.

è stato il giorno in cui i familiari di Tramonte e Cristiano hanno appeso uno striscione sotto il colonnato che sostiene gli uffici del Tribunale di Lamezia Terme, come fosse una preghiera composta, alle cui estremità i ritratti di Francesco e Pasquale - così giovani da far accapponare la pelle - se ne stavano tra i caratteri cubitali delle parole di Maria Tramonte: “Due colombe innocenti che ancora gridano in volo sete di giustizia”. E quanto quella scritta fosse un urlo straziante, è stato recepito dal procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro, Giuseppe Borrelli, che ha voluto incontrare nel pomeriggio i familiari delle vittime.

Francesco Cristiano, fratello di Pasquale, ha spiegato le ragioni che lo hanno spinto ad organizzare il sit-in: “Sono passati ventidue anni da quando sono stati uccisi due innocenti, e ancora non abbiamo ottenuto giustizia”, è il suo accorato appello.

Chi ha abbracciato un kalashnikov per sterminare la purezza del dovere senza colpe? Ma soprattutto, chi ha armato quelle braccia insolenti della verità, esaltate dall’ingordigia del male? Queste le domande di Francesco, questi gli interrogativi che spingono ancora il cuore a crepitare in fondo alle viscere. “Noi siamo qui, in un posto simbolico come il Tribunale, per sensibilizzare gli addetti ai lavori e tutti i cittadini - continua Francesco, con le lacrime che gli girano negli occhi striati di rosso – nei confronti della verità e della giustizia”.

Ma il punto è uno, e uno soltanto: “A quanto pare un pentito avrebbe rilasciato delle dichiarazioni importanti in merito alla nostra vicenda – incalza Cristiano –, noi vogliamo sapere se gli inquirenti stanno proseguendo con le indagini”. E dall’incontro con i referenti catanzaresi della Dda in effetti è venuto fuori, che sì, si sta lavorando sul caso del duplice omicidio dei netturbini uccisi in un agguato di tipo mafioso.

Ci sono strette di mano, gesti di solidarietà. Rocco Mangiardi sorride, sostiene la battaglia; la stampa, tutta, accorre e dispone gli obiettivi delle telecamere. Concorrere a dare voce a quell’eco irrefrenabile, una missione comune. Gli avvocati vanno e vengono, l’ingresso è affollato: alcuni spulciano quella scritta - che pare sempre più una preghiera quando il vento la scuote e la fa brillare di riflesso - altri non sollevano mai l’orecchio dal telefonino e l’occhio dalla valigetta traboccante di faldoni.

E lo striscione sventola su quelle teste, con le immagini di Francesco e Pasquale che pare vogliano dire: perché vi siete dimenticati di noi? Sì, perché le modalità dell’omicidio le conosciamo, sanguinarie, come si fosse in guerra, come quando la guerra non fa prigionieri. Ma in una guerra combattuta dalle organizzazioni criminali per accaparrarsi gli appalti della nettezza urbana, complice una connivente amministrazione comunale, cosa c’entrano due colombe, un ramoscello, una briciola di pane, e un nido senza ritorno?