Intervento del presidente nazionale FISC all'incontro promosso dall'ufficio per le comunicazioni sociali diocesano sul messaggio di Papa Francesco
Buona sera a tutti.
Saluto di cuore sua Eccellenza monsignor Schillaci: durante l'ultima Assemblea della CEI, quando Saveria mi ha proposto di essere qui stasera, sono andato a cercarlo per chiedergli “il placet”. Devo dire che me l'ha dato subito e quindi spero di non deludere le aspettative.
Grazie al dottor Soluri per la sua riflessione iniziale: si tratta di spunti importanti su cui meditare per chi è chiamato a svolgere la nostra professione in un momento particolare come l'attuale.
Grazie a Saveria Maria Gigliotti per avere pensato a me per questo incontro e per il suo impegno nel campo delle comunicazioni sociali della vostra diocesi: la ringrazio per la passione con cui sa comunicare il suo impegno e raccontare la sua quotidianità.
Grazie di cuore per questo invito che mi ha permesso di cominciare a conoscere un territorio ed una Chiesa che colgo ricchi di storia ma, soprattutto, di impegno a testimoniare quella Speranza di cui, come credenti, dobbiamo sempre essere pronti a rispondere a chi ce ne domandi ragione.
Devo confessarvi che è solo la seconda volta che entro nella vostra regione: mi era capitato di partecipare una quindicina di anni fa ad un convegno a Reggio Calabria.
Martedì sera mio figlio si è messo a studiare dove andavo (è in quinta elementare e sta facendo le regioni d'Italia per cui ha un certo incentivo) e dopo tutta una serie di calcoli mi ha comunicato fiero che fra Gorizia e Lamezia terme ci sono 810 chilometri.
Non siamo proprio vicini ma quando penso a questa distanza mi viene sempre da pensare cosa dovettero provare quei giovani che poco più di un secolo fa partirono dalle vostre terre per andare a combattere (e troppo spesso a trovare la morte) sui monti del Carso che guardano Gorizia o in riva all'Isonzo.
Sono dal gennaio 2020 il presidente della Federazione italiana dei settimanali cattolici, una realtà che raggruppa circa 190 testate diocesane di tutte le regioni del nostro Paese. Si tratta di una realtà che unisce 1 quotidiano, di settimanali (con circa 800 mila copie settimanali), mensili, agenzie di stampa, on line… Siamo nati nel 1966, alla fine del Concilio Vaticano II, ed allora proseguiamo la nostra missione di giornali locali di informazione generale a servizio delle nostre Chiese locali e della Chiesa. Della Fisc fa parte anche la vostra testata online, Lamezianuova. A Catania penso che monsignor Schillaci abbia avuto modo di conoscere la realtà della testata di quella diocesi (“Prospettive”) attiva dal 1985 al 2016 grazie all'impegno di sacerdoti quali padre Giuffrida o don Longo.
Vorrei riflettere insieme a voi su come possiamo far calare nella realtà quotidiana del nostro impegno di comunicatori (ma a me piace di più definirla come diakonia informativa per le nostre Chiese) il Messaggio che papa Francesco ci ha rivolto in occasione della 56^ Giornata delle comunicazioni sociali che vivremo il prossimo 29 maggio. Penso che questa domanda sia fondamentale nel delineare il mandato che la Chiesa di Lamezia Terme vi rinnova di settimana in settimana, di mese in mese.
“Ascoltare con l'orecchio del cuore”. È il papa a dirci il perché di questa scelta: “Stiamo perdendo la capacità di ascoltare chi abbiamo difronte, sia nella trama normale dei rapporti quotidiani, sia nei dibattiti sui più importanti argomenti del vivere civile”. Ed ancora: “Ad un illustre medico, abituato a curare le ferite dell'anima, è stato chiesto quale sia il bisogno più grande degli esseri umani. Ha risposto: “il desiderio sconfinato di essere ascoltato”.
Apro una parentesi. Penso questo sia stato e sia particolarmente vero in questo tempo di pandemia.
La nostra società – e lo dico pensando con lo sguardo di operatore nei massmedia ma credo che lo stesso argomento interessi profondamente la vita ecclesiale – aveva esorcizzato la malattia e la morte, relegandole ad un tabù di cui non parlare. Improvvisamente ci si è trovati a dovere fare i conti nuovamente con esse: accorgendoci che stavamo perdendo le nostre storie (i nostri amici, i nostri familiari, …) abbiamo risentito il bisogno di raccontare per riannodare i fili e di essere ascoltati. Avevamo ed abbiamo bisogno di qualcuno che ci ascolti nuovamente.
Per le nostre testate online il tempo della pandemia è stato segnato da un dato abbastanza coincidente da nord a sud: sono aumentati esponenzialmente gli accessi ai social ed ai siti web Scusate la deviazione, riprendo subito la rotta principale. Il tema che il Papa ci propone assume un rilievo ulteriore tenuto conto di quanto siamo chiamati a vivere come comunità e come singoli nella fase narrativa di questo primo tempo del percorso sinodale in cui sono impegnate le Chiese del nostro Paese e che ci vede in ascolto di quanto lo Spirito ci dice ma anche dei nostri fratelli.
Però, quando ci accingiamo ad ascoltare ci troviamo dinanzi ad un controsenso apparentemente insormontabile. Il “mettersi in ascolto” sembrerebbe abbastanza semplice in un tempo come l'attuale in cui, attraverso i social, il suono delle parole riempie ogni momento della nostra esistenza tanto che saremmo portati a credere che ormai non vi sia nulla di nuovo da raccontare.
Ormai basta anche il più semplice smartphone per proporre in ogni istante “una vita in diretta”, con una copertura a 360 gradi, 24 ore su 24, 365 giorni all'anno. Da comunicatori che nella propria professione hanno come riferimento la Parola (quella con la P maiuscola) l'ascolto a cui siamo chiamati è, però, un qualcosa di profondamente diverso: un atteggiamento che ha come presupposto una relazione personale caratterizzata da un silenzio rispettoso (ma carico di attesa) verso quanto l'altro ha da dire e come conseguenza l'accettare di lasciarsi penetrare e cambiare dalle sue parole, dalla sua storia. “L'ascoltare – ci dice papa Francesco – è dunque il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare. Per offrire un'informazione solida, equilibrata e completa è necessario avere ascoltato a lungo. Per raccontare un evento o descrivere una realtà in un reportage è essenziale avere saputo ascoltare, disposti anche a cambiare idea, a modificare le proprie ipotesi di partenza”.
Francesco ci evidenzia il rapporto che deve sempre esserci fra ascoltatore ed ascoltato. Un rapporto dialogico caratterizzato da quello che, in termini giuridici, si definisce “legame sinallagmatico”. Il legame sinallagmatico è quello esistente fra prestazione e controprestazione; fra vendita ed acquisto. Senza il primo anche l'altro viene meno e non esisterebbe. Perché l'ascolto non si riduca a duologo (un neologismo che il Papa usa per indicare un monologo a due voci) è necessario che questo legame esista “che l'io ed il tu siano entrambi in uscita, protesi, l'uno verso l'altro”.
Il Papa ci offre un suggerimento che vale per le comunicazioni ma possiamo applicare ad ogni ambito della nostra vita (io con mia moglie, ciascuno di voi con i propri colleghi, magari mons. Schillaci con i suoi sacerdoti…), ma va anche oltre. Ci dice come approcciarsi all'ascolto: “Solo lo stupore permette la conoscenza. Penso alla curiosità del bambino che guarda al mondo circostante con gli occhi sgranati. Ascoltare con questa disposizione d'animo – lo stupore del bambino nella consapevolezza di un adulto – è sempre un arricchimento perché ci sarà sempre una cosa, pur minima, che potrò apprendere dall'altro e metterlo a frutto nella mia vita”.
È un passaggio a mio parere fondamentale e che può cambiare la nostra prospettiva di come viviamo il giornalismo e la comunicazione: faccio un'intervista, realizzo un reportage per raccontare sapendo che quello che ho ascoltato e che racconterò non mi lascerà indifferente. “La mancanza di ascolto che sperimentiamo tante volte nella vita quotidiana, appare purtroppo evidente anche nella vita pubblica dove invece di ascoltarsi, spesso “ci si parla addosso”. Questo è sintomo del fatto che, più che la verità e il bene, si cerca il consenso; più dell'ascolto si è attenti all'audience”.
Vale per la vita pubblica ma quanto è vero anche per come spesso noi ed i nostri colleghi intendiamo l'informazione, schiavi dei like e dei mi piace. Il “lasciarsi penetrare” dalla storia dell'altro non è proprio scontato. Ce ne rendiamo conto se pensiamo all'indifferenza verso tutti coloro che ogni giorno – anche sui nostri massmedia – trattiamo da “invisibili”, a cui non siamo capaci di riconoscere nemmeno la dignità del diritto di parole e che chiudiamo in un'impersonale categorizzazione: gli stranieri, gli immigrati, i poveri, i detenuti… Tutte persone con cui abbiamo un debito di ascolto considerevole!
C'è un passo, a riguardo, nel Messaggio che rilancio alla vostra attenzione. Credo abbia una risonanza particolare in questa vostra terra che dopo avere conosciuto il fenomeno migratorio, vedendo tanti propri figli andare lontano alla ricerca di un lavoro e di un'occasione di vita, ora assiste agli sbarchi di tanti disperati in fuga da fame, guerre, violenze…
Scrive il Papa: “Anche la realtà delle migrazioni forzate è una problematica complessa e nessuno ha la ricetta pronta per risolverla. Ripeto che per vincere i pregiudizi sui migranti e sciogliere la durezza dei nostri cuori, bisognerebbe provare ad ascoltare le loro storie. Dare un nome ed una storia a ciascuno di loro. Molti bravi giornalisti già lo fanno. E molti altri vorrebbero farlo, se solo potessero: incoraggiamoli! Ascoltiamo queste storie! Ognuno poi sarà libero di sostenere le politiche migratorie che riterrà più adeguate al proprio Paese. Ma avremo davanti agli occhi, in ogni caso, non dei numeri, non dei pericolosi invasori ma volti e storie di persone concrete, sguardi, attese, sofferenze di uomini e donne da ascoltare!”.
“Tutti abbiamo le orecchie ma tante volte anche chi ha un udito perfetto non riesce ad ascoltare l'altro. C'è infatti una sordità interiore peggiore di quella fisica. L'ascolto, infatti, non riguarda solo il senso dell'udito ma tutta la persona. La vera sede dell'ascolto è il cuore”. Permettetemi, a questo punto, di fare però un passo indietro. Se vi capita di scorrere la Gazzetta Ufficiale e vi soffermate sul testo di una legge vi capiterà spesso di trovare l'espressione “il combinato disposto”.
Allora invito anche voi a non leggere questo 56° Messaggio da solo ma a combinarlo con la rilettura dei Messaggio del 2020 (perché tu possa raccontare e fissare nella memoria: la vita si fa storia) e quello del 2021 (Vieni e vedi: comunicare incontrando le persone dove e come sono). Sono testi propedeutici a quello dell'anno in corso (ed il Papa stesso lo sottolinea nei primi capoversi) e che vengono a costituire un trittico che consiglierei come manuale pratico a chi si avvicina al mondo dei massmedia non solo nelle nostre realtà ecclesiali ma anche in quelle laiche (e nelle scuole di giornalismo).
Forse, me ne scuserà il presidente dell'Ordine ma lo dico senza chiave polemica, permetterebbe a molti di ritrovare la rotta giusta cogliendo ancora meglio il bello della nostra vocazione. Nel 2020 (e fa impressione pensare che sia stato scritto quando nemmeno immaginavamo quello che ci avrebbe colpito con la pandemia di Covid-19 e quante storie quel morbo avrebbe interrotto), il Papa ci diceva come avvicinarci ai nostri interlocutori: “Con lo sguardo del Narratore – l'unico che ha il punto di vista finale – ci avviciniamo ai protagonisti, ai nostri fratelli e sorelle, attori accanto a noi della storia di oggi. Sì, perché nessuno è una comparsa sulla scena del mondo e la storia di ognuno è aperta a un possibile cambiamento.
Anche quando raccontiamo il male, possiamo imparare a lasciare lo spazio alla redenzione, possiamo riconoscere in mezzo al male anche il dinamismo del bene e dargli spazio”. E nel 2021: “La crisi dell'editoria rischia di portare ad un'informazione costruita nelle redazioni, davanti al computer, ai terminali delle agenzie, sulle reti sociali, senza mai uscire per strada, senza più “consumare le suole delle scarpe”, senza incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni. Se non ci apriamo all'incontro, rimaniamo spettatori esterni, nonostante le innovazioni tecnologiche che hanno la capacità di metterci davanti a una realtà aumentata nella quale ci sembra di essere immersi. Ogni strumento è utile e prezioso solo se ci spinge ad andare e vedere cose che altrimenti non sapremmo, se mette in rete conoscenze che altrimenti non circolerebbero, se permette incontri che altrimenti non avverrebbero”.
E qui mi permetto di inserire un nuovo elemento. Una volta usciti dalle redazioni non incontriamo le persone in un luogo neutro. Per informare bisogna conoscere ma per conoscere c'è bisogno di una vicinanza particolare che deve farsi prossimità. Ai discepoli che gli domandano “Dove abiti?”, Gesù risponde con l'indirizzo di una città o di una via ma dicendo loro: “venite e vedete!”.
Si tratta, allora, di dare nuovo vigore al rapporto con il territorio in modo ancora più pregnante – e mi affido ancora alle parole del papa – perché “la capacità di ascoltare la società è quanto mai preziosa in questo tempo ferito dalla lunga pandemia”. Certamente può sembrarvi strano ed anacronistico che vi parli di territorio in un'epoca come la nostra dove una delle caratteristiche fondanti del mondo digitale sembra essere proprio la sua incollocabilità fisica o temporale. Il mondo della carta stampata – quello in cui la maggior parte di noi è nata – era un mondo dove la notizia aveva una cornice che la conteneva. Pensate alla pagina del giornale: una cornice fisica che includeva anche una cornice temporale. Una volta stampata non poteva più essere modificata.
Oggi con i social media non è più così: c'è una pagina virtuale la cui dimensione fisica può variare a seconda di come giriamo lo smartphone ma, soprattutto rimane, sempre aperta, in continuo aggiornamento… C'era scritto sul giornale era una sentenza.
C'è scritto sul web non è più così! Ma il territorio di cui parlo non è inteso solamente come un luogo fisico (e con questo non ne sminuisco certamente la ricchezza storica, culturale, artistica, linguistica, ambientale) ma è, prima di tutto, il luogo teologico in cui la Chiesa vive la missione che i Padri del Concilio Vaticano II hanno così ben sintetizzato nelle prime parole della “Gaudium et Spes”: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”.
È l'incipit della “Gaudium et Spes” ma potrebbe essere tranquillamente il piano editoriale per ciascuna delle nostre testate! Il territorio non rappresenta solo ciò di cui ci occupiamo ma coloro a cui ci rivolgiamo, che ascoltiamo e di cui parliamo: le persone che lo abitano e lo costituiscono, la generazione presente, quelle passate e quelle future.
Di nessuno dei massmedia diocesani (testate diocesane, bollettini parrocchiali, radio, televisioni, social media…) deve potersi dire che sono come Melchisedek. Voi senz'altro ricordate questo personaggio della Bibbia, talmente importante che veniva (e viene) citato nel Rituale romano nel rito della consacrazione dell'altare e nel Messale romano nel Canone della messa (“tuo sommo sacerdote”): il testo sacro ci dice che era un cananeo di Salem – quindi non ebreo -, sacerdote del Dio altissimo, che offrì pane e vino ad Abramo e lo benedisse. Nella Lettera agli Ebrei, Paolo accosta la sua figura a quella di Gesù.
Di lui non sappiamo altro: è senza padre, senza madre, senza genealogia… Così non deve avvenire per i nostri massmedia: di ognuno di essi deve essere sempre possibile definire “la genealogia”. Di ognuno deve essere sempre possibile ricordare e comprendere la sua Chiesa di riferimento con la sua storia, le sue problematicità, le sue ricchezze, il suo linguaggio.
È stato scritto che la Chiesa sta in terra come una pianta con radici ben solide, legate al paese ed alle città ma è sempre in mare aperto per evangelizzare nuovi territori e terre sconosciute. Il legame con il territorio, quindi, non è un ostacolo né un invito al campanilismo ma il trampolino di slancio per aprirsi ulteriormente all'altro.
Per spiegare ulteriormente questo legame fra ascolto e territorio permettetemi una citazione. Spero che mons. Schillaci mi perdonerà se prendo a prestito le sue parole. Se andate a rileggere il suo testo pronunciato nella cerimonia di apertura del cammino sinodale in Cattedrale di questa vostra Chiesa lo scorso ottobre trovate tutta una serie di espressioni dedicate proprio all'ascolto e che, mi pare di cogliere, ben si inseriscono nel Messaggio del Papa su cui stiamo riflettendo:
“Prendiamoci del tempo per pregare, per ascoltare i poveri, per prenderci cura delle nuove povertà, per ascoltare il grido di coloro che non hanno neppure la forza di gridare. Prendiamoci del tempo per ascoltare la Calabria in tutte le sue espressioni, in tutte le sue ricchezze e potenzialità. Ascoltiamo ed ascoltiamoci per essere più vicini, più vicini, più ricchi di tenerezza e di compassione. Camminiamo insieme”.
Essere uomini di comunicazione significa – ancora di più oggi, in questo tempo di pandemia – esercitare il ministero dell'ascolto facendo emergere sulla carta e sul web le tante storie di quotidiana speranza che hanno come protagonisti gli uomini e le donne che vivono nel nostro territorio perché la loro testimonianza divenga davvero esperienza condivisa e narrazione sinodale.
Se facciamo nostre le parole del Papa – particolarmente “in questo tempo ferito dalla lunga pandemia” - allora davvero potremo donare proficuamente il nostro tempo a chi chiede di essere ascoltato per donarci la storia della sua vita. Sapendo che davvero l'interlocutore che abbiamo dinanzi potrà sorprenderci ogni volta facendo proprie le parole del poeta turco Nazim Hikmet: “Quello che vorrei dirti di più bello non te l'ho ancora detto”.