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Cultura e Società

Le memorie di futuro, verso una migliore umanità

Giovanni Maria Cataldi · 12 anni fa

Recensione di Luigi Accattoli al nuovo libro di Filippo d'Andrea Dovessi scegliere un motto a segno dell’intero volume di Filippo D’Andrea indicherei comunione civile che si incontra a pagina 59. Una scena di vita ispirata a questo ideale è descritta nell’episodio di una campagna elettorale amministrativa in una frazione dell’ex Comune di Sambiase, con due giovani candidati in liste opposte che si incontrano durante il porta a porta, l’uno (che è il testimone narrante, Isabella Fiore) che esce da una porta, mentre l’altro (che è Gianni Renda, uno degli otto protagonisti del libro) entra in essa e insieme si avvedono dell’involontaria violenza nei confronti degli abitanti della casa che quella contemporaneità porta con sé e rimediano con le risorse di un’intatta vocazione d’uomini vivi coinvolgendo i destinatari della loro propaganda nei comuni ricordi, la scuola media, l’amore per il calcio, i minimi episodi dell’infanzia, l’ansia condivisa per un mondo migliore: «Trascorremmo, insieme ai compagni e agli amici che ci ascoltavano, un momento di straordinario incontro, riuscendo a tradurre in comunicazione un’occasione di potenziale conflitto: ci congedammo felici di avere in quel modo costruito non un impegno di voto per l’uno a discapito dell’altro, ma uno spazio di comunicazione per costruirvi il luogo della convivenza».

è questa la cifra del volume: una comunione civile di cui si avverte l’assenza e della quale si invoca l’avvento. Se ne ritrova il segno in ognuna delle otto storie di vita lametina colte sotto l’esigente cielo di Calabria, avvertito a ogni pagina con l’intatta sua luminosità e i suoi colori; e svolte come memorie di futuro, come messaggi in bottiglia – si direbbe – in vista di una migliore umanità.

I due personaggi che sono al centro di questo laboratorio memoriale – e che in qualche modo tutto lo reggono – sono Gianni Renda, già nominato, e suo zio Giovanni Renda: ambedue avvocati prestati alla politica, cristianamente dediti al soccorso e al riscatto dei poveri pur con diverse opzioni partitiche, l’uno morto giovanissimo e l’altro carico d’anni, mossi ambedue dalla passione di realizzare in terra di Calabria un’inedita comunione civile, attraverso l’esercizio della più esigente delle virtù che è quella della carità politica. Qui la pagina chiave è la 77, cuore pulsante del testo: «Due testimoni cristiani che primeggiano nella storia di Sambiase, di Lamezia, e di tutta la diocesi». Il capitolo dove si trova questa pagina è il più bello del volume, il più caldo.

Dicevo che l’ideale della comunione civile lega tra loro tutte le storie come un tenace filo rosso. Lo troviamo nelle pagine che Filippo D’Andrea dedica a Elvira Bruno D’Andrea sua «indimenticabile sposa», che «fino all’ultimo istante della vita ha pensato agli altri», educatrice e animatrice sociale, sempre mossa dall’impegno per il recupero dei giovani devianti, ansiosa per la crescita di un’umanità capace di «capire anche con uno sguardo i figli».

Il magistrato Basilio Sposato dedito all’impresa di intus legere nei casi umani dei quali si trova a occuparsi. Giannetto De Sensi, il sindaco che prende sulle spalle la «croce politica» di porre un qualche argine all’inquinamento mafioso della città e per fare ciò arriva a chiedere il commissariamento del proprio partito.

I due poeti Raffaele Talarico e Franco Costabile: il primo «poeta di strada» che concepisce il suo poetare come «un dono all’autocoscienza della città» e un contributo «alla rinascita di un popolo»; il secondo, poeta suicida dall’esistenza travagliata, tutto dedito a cogliere la mistericità dell’umanità calabrese «nell’affanno di scrollarsi dalla disperazione collettiva». Sono grato a Filippo D’Andrea per avermi fatto conoscere il poeta Costabile attraverso la lettura del manoscritto di questo libro. Una gratitudine che esprimo isolando un suo verso qui riportato a pagina 110: «Poiché tu sai di che tristezza è l’uomo», che è tragica invocazione a Dio, come forse fu anche il suo suicidio.

Infine Luigi Allevato, il frate amato da tutti, attivo in Calabria e poi in Brasile nell’identico anelito di «purificare la pietà popolare intrisa di elementi pagani». Trovo ottimo il suggerimento dell’autore di porre in relazione la solitudine che uccide il poeta Costabile e la missione che si assegna questo frate minimo, colta attraverso il più vivo dei suoi pizzini: «Donare significa gettare un ponte sull’abisso della solitudine».

Quante figure significative nella storia recente di Lamezia, quanta umanità sa scorgere l’occhio limpido del nostro narratore. La sapienza di leggere dentro i casi della vita rende vive le pagine e le fa a loro modo festose, o quantomeno portatrici della contentezza di chi ha trovato una perla preziosa.

«La terra di Calabria – dice la mia migliore amica calabrese, Maria Mariotti – non è stata mai avara di individualità eccezionali, semmai anzi troppo generosa nel moltiplicarle senza però riuscire a collegarle e a cavarne un tessuto comunitario capace di far crescere l’insieme della comunità».

Credo che Filippo D’Andrea condivida l’intuizione della Mariotti, me ne avvedo dall’elegia che apre il volume – nella quale elenca con accoramento e leggerezza i grandi nomi della storia antica e giovane della Calabria – e ancora di più avverto quel sentimento nella passione con cui ha cercato in ognuna delle otto micro-storie il segno raro delle individualità più ricche che mirano all’ideale della comunione civile.

Luigi Accatoli, saggista e giornalista; già vaticanista del Corriere della Sera