La Praga del IX secolo d.C era ancora pagana quando gruppi di ebrei trovarono asilo sulla riva sinistra della Moldava e più tardi, cresciuta la comunità, anche su quella destra. In età medievale, grazie alla sua posizione strategica, la città boema divenne il centro della cultura ebraica per la presenza di illustri rabbini, filosofi e studiosi dediti all’astronomia, alla matematica, alla storia e alla letteratura, come pure alla cabbala e all’alchimia. Dato per scontato che anche a Praga, in alternanza a periodi di relativa calma, gli ebrei conobbero discriminazioni razziali ed efferati pogrom, la città conserva tracce cospicue di questa presenza secolare: prima fra tutte la sinagoga più antica d’Europa dopo quella pugliese di Trani. Eretta verso il 1270 in stile gotico, si caratterizza per l’alto tetto a campana e il timpano decorato da tralci e grappoli di vite. Ma è soprattutto nota per essere legata ad una delle più affascinanti leggende ebraiche: quella relativa al Golem, che si dice abitasse nella soffitta del sacro edificio. Di che si tratta? La storia di questo popolo sempre in attesa di un Messia liberatore ha registrato vari pseudo-messia e perfino uno artificiale: il Golem, appunto. La leggenda del fantoccio d’argilla creato da un rabbino per liberare gli ebrei oppressi ha conosciuto nel tempo varie versioni, la più nota delle quali – definitasi a metà del secolo XIX – lo vuole fabbricato nel XVI a Praga da Yehuda Loew ben Betsalel, detto il Maharal. Un’ulteriore trasformazione della leggenda descrive le intemperanze del Golem, che incapace di controllare il suo enorme potere manda a vuoto la propria missione salvifica. Quest’ultima versione del mito ha fecondato varie forme artistiche lungo tutto il XX secolo, ed è proprio ad essa che s’è ispirato lo scrittore russo in lingua yiddish H. Leivick per il suo poema drammatico in otto quadri Il Golem, ora pubblicato da Marsilio. Il fantoccio-messia, destinato ad essere strumento di salvezza per gli ebrei accusati dai cristiani di omicidio rituale di bambini, «cerca di ritrarsi dal suo compito – scrive la curatrice Laura Quercioli Mincer –, si rifiuta di vivere; con disperazione di bambino implora il suo creatore di lasciarlo fra le tenebre del non-essere». Invano: questo «informe embrione» (tale è il significato della parola “golem”) dovrà obbedirgli affrontando le paurose visioni della Quinta Torre, dove è stato da lui confinato: un richiamo esplicito all’esperienza fatta dall’autore in una cella d’isolamento a Minsk, in Siberia. Appaiono accanto al Golem, nei suoi tenebrosi recessi, altri due messia: il Giovane Mendicante e l’Uomo con la Croce, come lui esposti alla derisione altrui ed esonerati dal compito di redimere l’umanità. In un crescendo di solitudine (l’abbandono da parte del rabbino e il rifiuto della comunità ebraica, terrorizzata dall’aspetto mostruoso e dalla forza selvaggia del Golem), il fantoccio scivola nella follia e, incapace di governare la propria pulsione alla violenza, fa strage nella sinagoga tra coloro che avrebbe dovuto difendere. A questo punto il Maharal è costretto a distruggere la sua creatura, restituendola al non-essere. I tempi non sono ancora maturi per un mondo in pace finalmente redento. Leivick ha rielaborato in maniera del tutto originale la leggenda del Golem: il suo è un messia “triste”, ignaro dello scopo reale del suo esser messo alla prova, con la nostalgia di un Dio incomprensibilmente lontano. Questo dramma poetico del 1921, destinato alle scene, è un’opera potente, che affascina: anche perché densa di inquietanti premonizioni sulla futura Shoa. (da Città Nuova)
La recensione
Il Messia triste
Gigliotti Saveria Maria · 7 anni fa