·

Cultura e Società

I giovani, la base per la ripartenza…

Paolo Emanuele · 12 anni fa

Sì, ma quali giovani? In un mio intervento precedente su questo giornale mi sono permesso di riflettere sull’importanza che Lamezia Terme, ma il discorso vale per la Calabria tout court, ritorni a calamitare a sé quei ragazzi che troppo presto partono e troppo tardi ritornano, senza così che si possa mettere in moto quel processo di ricambio generazionale indispensabile per rinfrescare una città “vecchia” sotto molteplici punti di vista, per non dire addirittura anacronistica rispetto ad altri territori con uguali risorse ma con un diverso modo di gestirle. Qualche tempo fa ho assistito, in una chiesa qui a Lamezia Terme, alla celebrazione di una messa dove il parroco nella sua predica ai fedeli metteva a tema il problema dei giovani di oggi,

e da qui è nata una mia considerazione sulla necessità di relativizzare qualsiasi discorso in proposito. Bisogna stare attenti infatti quando si parla di giovani perché il rischio è di cadere in facili luoghi comuni, se non addirittura nella demagogia. Frasi come “Largo ai giovani”, “Bisogna dare spazio ai giovani”, “I giovani sono il futuro” e via dicendo sono frasi giuste se non scadono nel qualunquismo e se, soprattutto, si pondera bene quale sia ad oggi la tipologia di giovane alla quale ci si riferisce. Sì perché è vero che il futuro è dei giovani, ma questi sono davvero coscienti di avere un futuro? O vivono in un perenne presente senza curarsi di quello che accadrà, perché magari sanno di non doversi aspettare granché dagli anni a venire? Il termine “giovane”, purtroppo, ad oggi, ha molto spesso un solo sinonimo: disagio. Disagio nello stare in mezzo agli altri, nel gestire una solitudine con la quale, nella post-modernità, molto spesso i bambini già da piccoli devono imparare a convivere appigliandosi a qualsiasi tipo di surrogato virtuale: ieri la televisione, oggi Internet e videogiochi. In generale disagio nel vivere, anzi nel sopravvivere, l’infanzia, l’adolescenza e la maturità senza punti di riferimento chiari e costanti, in primis la famiglia, ma anche la Chiesa, peraltro in un contesto sociale ed economico in cui manca il nesso causa-effetto, dove al sacrificio non corrisponde più il giusto riconoscimento, dove agli anni di studio non segue più la garanzia di lavoro, dove l’onestà sembra appannaggio di quei pochi ingenui che non hanno capito nulla della vita. In questo mondo, veicolato simbolicamente dai mass media e portato alle estreme conseguenze dalla globalizzazione, la famiglia è assente e i genitori, sia che lavorino o che siano assorbiti dai tanti problemi quotidiani, demandano l’educazione dei figli ad altre istituzioni, come la scuola, o addirittura a nessuno, lasciandoli soli con loro stessi. Ma essi non sanno che in questo modo li affrancano anche da tutta una serie di precetti, religiosi prima di tutto, che sono il sostrato indispensabile per formare delle menti non facilmente corruttibili da tutta quello sfavillio di luci e svago che portano, se gestiti malamente, allo sfascio più totale. Un’indifferenza cronica che, ma questa è storia ormai nota, viene affogata in qualsiasi tipo di sostanza o condivisa con le più improbabili compagnie di amici, o presunti tali, che guarda caso si trovano sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Se a tutto questo panorama si aggiunge il fattore interculturale, retaggio inevitabile di quella globalizzazione tanto positiva quanto immeritata, che ha messo in comunicazione ragazzi di tutte le etnie e culture, allora ecco che le cose si complicano ancor di più perché confrontandosi con una tale eterogeneità di esperienze e vissuti di coetanei sparsi in tutto il mondo un giovane, che già localmente fatica a trovare appigli a cui aggrapparsi, si trova ancora di più spaesato e confuso su come gestire la propria vita. Naturalmente poi nella nostra società la dispersione spirituale è un processo che si autoalimenta dal momento che un ragazzo con problemi invece di essere aiutato si tende spesso a giudicarlo, o peggio ancora a categorizzarlo in una cartella apposita di disagio senza andare minimamente a scandagliare caso per caso i tormenti che affliggono, in maniera del tutto personale, ciascun individuo. Per questo poi accade quel fenomeno per cui è lo stesso giovane, mosso da depressione o rabbia, ad immedesimarsi nella categoria in cui lo ha collocato arbitrariamente la collettività trovando così un facile alibi per mollare. E’urgente quindi che la famiglia torni a fare il suo compito primario, vale a dire educare i figli a crescere in questo “nuovo” mondo. I genitori si riapproprino del loro ruolo e stiano vicino ai ragazzi sin da piccoli, non avendo fretta di renderli indipendenti ma soprattutto trovando sempre il tempo, in mezzo a tutti gli impegni e i problemi quotidiani, di dare un consiglio in più piuttosto che uno in meno. La Chiesa, che pure non deve essere istituzione sostitutiva della famiglia, ha anch’essa un ruolo chiave nel rimettere ordine, nel chiarire quale sia la gerarchia delle cose da mettere nel bagaglio che ci portiamo in spalla durante tutta la vita. Un bagaglio che non deve avere molte cose, si deve viaggiare leggeri, ma coscienti di avere con sé le cose indispensabili.