Quando Adalisa si era accorta di aspettare un altro bambino, sia lei che il marito Giampaolo se lo figuravano bello e sano come Alberto. Invece era nato con la sindrome di Down. Racconta Adalisa: «è stato un dolore fortissimo, che però non ci ha schiantati: un bambino è sempre un dono, ci siamo detti, ogni vita è preziosa. Se Dio mandava una creatura così, forse era perché si fidava di noi, ci riteneva capaci di un amore più grande».
Dopo il parto, giorni difficili attendono i due coniugi. Per sopravvivere, Luca deve sottoporsi ad analisi continue. «Noi però non volevamo lasciare nulla di intentato: anche se fosse vissuto solo un anno, o un mese, era nostro figlio. Ci sentivamo uniti come forse mai prima di allora e, pur nella sofferenza, sperimentavamo una serenità che non passava inosservata neanche ai medici e agli infermieri, anzi incoraggiava anche loro nel prodigare a Luca ogni cura possibile».
Ma un pensiero non dà pace a Giancarlo e Adalisa: «Cosa sarà di Luca quando loro non ci saremo più? Sarà un peso per il fratello. Dovrà andare in un istituto? E ancora: riuscirà ad accettare il suo stato, non si sentirà sempre “diverso” dagli altri?».
«Il futuro non dipendeva da noi – continua lei –, mentre stava a noi far sentire a Luca, subito, tutto l’amore di cui eravamo capaci. Solo così lui non avrebbe sentito la “mancanza” di qualcosa rispetto agli altri bambini sani. Vivere il presente fidandoci dell’amore di Dio è stata la nostra salvezza, la nostra libertà, ciò che ci ha permesso di guardare con speranza all’avvenire».
Dopo quattro mesi di cure intense, il bambino si riprende e può essere portato a casa. Inizia così la fase di rieducazione. Interviene Giancarlo: «Ogni giorno dovevamo accompagnarlo in un istituto specializzato non lontano dalla nostra abitazione. Prima di allora non ci eravamo mai resi conto di quali potessero essere i problemi e le ansie dei genitori di bambini come il nostro. Ora, con Luca, quel mondo si apriva a noi, rivelandoci una sofferenza che neppure sospettavamo. Abbiamo così avuto modo di conoscere tanti di loro: erano chiusi in sé stessi, nel proprio dolore; molti si ribellavano contro una sorte che ritenevano ingiusta. A noi sembrava di non far nulla di particolare, ma nel nostro modo di comportarci dovevanonotare qualcosa di inesplicabile, perché a volte ci sentivamo dire: “Quello che ci è capitato è un castigo di Dio: come fate voi ad accettare un bambino così?”».
«Cercavamo di spiegare loro – subentra Adalisa – che non sentivamo affatto come un castigo l’avere uno come Luca, semmai come un dono; ma soprattutto volevamo che ci sentissero vicini, solidali nella loro angoscia. Con qualche coppia abbiamo continuato ad incontrarci anche fuori dell’istituto, talvolta in occasione di feste o ricorrenze particolari a cui invitavamo anche altre persone amiche. Così man mano si allargava la cerchia di quanti venivano sensibilizzati a questi problemi e ci si abituava a portarli insieme; in questo modo diversi genitori sono stati aiutati a superare il primo momento di cupa disperazione».
E prosegue: «Luca l’abbiamo sempre trattato come un bambino normale, alla stessa stregua di Alberto. Ma sappiamo di genitori con figli Down che preferiscono non mostrarli agli altri. Me ne sono resa conto quando, una volta che portavo a passeggio Luca, una signora mi ha detto: “Fa bene, sa? Perché così la gente si abitua a vederlo”. Una volta – si era in una località di montagna – alcuni villeggianti mi hanno parlato di una bambina con handicap di nove anni, che i genitori non facevano mai uscire di casa. Erano persone piuttosto schive e chiuse, forse proprio a motivo di quella figlia. Mi sono informata di dove abitavano e diverse volte ho portato Luca a passeggio nei dintorni della loro casa. L’anno dopo, ritornando nello stesso luogo, ho saputo che avevano incominciato a far uscire la loro bambina, e che addirittura lei stava frequentando la scuola. Erano stati incoraggiati vedendo “quella signora venuta da Padova che non si vergognava di portare fuori il suo bambino”».
Adalisa e Giampaolo fanno già progetti per rendere più facile la vita di Luca. Purtroppo, proprio quando lui sembra sia avviato ad un’esistenza abbastanza normale, a due anni,viene a stroncato da una trombosi. «Nostro figlio ha lasciato in noi un vuoto enorme – confidano i due coniugi –. Soprattutto Alberto sentiva la mancanza del fratellino e ci chiedeva spesso di lui. Ogni tanto qualcuno ci chiede cosa ha significato per noi Luca. Nella sua vita così breve, è stato tramite per innumerevoli doni, da parte di Dio, che forse sarebbero mancati se avessimo avuto una vicenda più “normale”: ci ha permesso di conoscere ambienti e persone che mai avremmo avvicinato spontaneamente, e dobbiamo a lui se abbiamo scoperto – in noi e attorno a noi –valori umani di vita vissuta, di sofferenza e di amore che solo la prova ha contribuito a far affiorare e a mettere in luce». (da Città Nuova)
Testimonianza
Vivere il presente fidandosi di Dio
Gigliotti Saveria Maria · 8 anni fa