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Favola

L'albero di Nelson

Paolo Emanuele · 9 anni fa

Quel giorno nonno Umberto era insolitamente silenzioso e serio, se non addirittura triste. Come poteva non accorgersene Stefano, il nipotino, sempre a gironzolargli intorno? Fu così che, dai e dai, finì per cavargli fuori il perché di quello stato d’animo.

«Sai, Stefy, appena ieri ho ricevuto una notizia molto dolorosa: è morto un mio carissimo amico sacerdote, che viveva al di là dell’Oceano Atlantico, in America Latina. Era ancora giovane, di grande bontà, s’era dedicato ai poveri e agli ammalati... ed è stato ucciso. Non si sa da chi e perché. Forse per derubarlo... Ma cosa poteva possedere lui, che già aveva dato tutto?».

Troppo grande questo discorso per un bambino di cinque anni? No: Stefano, un po’da quel che vedeva in televisione, un po’da quel che ascoltava dai grandi, era cosciente che nel mondo, oltre al bene, esiste anche il male provocato dagli uomini; aveva sviluppato una sensibilità verso certe tragedie, nel mondo, che provocano lutti e sofferenze.

«Oh... e come si chiamava quel tuo amico, nonno?».

«Nelson, era un colombiano».

«Racconta…».

«Non è facile. Non so se capiresti proprio tutto. Fin da piccolo ha dovuto affrontare tanti dolori. Ma dalla fede traeva coraggio e non ha mai perso la gioia. Vorrei però narrarti almeno un episodio di quando era piccolo come te: me lo confidò al tempo in cui si trovava in Italia per i suoi studi teologici…».

«Nelson – continuò nonno Umberto dopo aver acceso la pipa – era nato in un quartiere povero di Calarcà, verso la campagna. Da piccolo, gli piaceva molto accompagnare il papà nel campo dove lavorava (faceva il contadino), sentire le sue spiegazioni sulle piante, su quanta fatica e pazienza occorrevano per coltivarle, prima di poterne raccogliere i frutti. Era un campicello grande così, eppure quante patate, granturco, fagioli e altri ortaggi! E quanti alberi da frutta! Ci sapeva fare, quel papà. I prodotti che non venivano venduti al vicino mercato, costituivano il vitto della famiglia. La mamma poi, che allevava galline ed oche, sapeva preparare un ottimo cuchuco…».

«Cuch... cosa?» interruppe quel curiosone di Stefano.

«Ma sì, un minestrone di verdure e granturco cucinato con pezzi di maiale... Così tirava avanti quella famiglia. Una famiglia numerosa, sai: oltre ai genitori, sette figli tra maschi e femmine. E molto povera. Eppure l’amore fra tutti riusciva a rendere meno dura la vita, anzi li spingeva a guardare fuori di sé, ai bisogni di chi aveva ancora meno di loro. Per esempio, in quel campo si faceva notare un bellissimo melo che ad ogni primavera si copriva di una nuvola di fiori rosa. Si diceva che avesse frutti saporosissimi, ma nessuno dei sette figli era mai riuscito ad assaggiarne uno. Guai, anzi, a raccogliere quelli che cadevano per terra! A Nelson tutte quelle belle mele rosse facevano venire l’acquolina in bocca, e una volta glielo aveva osato chiedere: “Per favore, papà, almeno una... Perché no?“. Lui sorrise, depose la vanga e accarezzò i capelli di quel bambino gracile dalla carnagione leggermente abbronzata e dagli occhi espressivi. è tradizione di famiglia – prese a dire – riservare quelle mele per gli ammalati della parrocchia, per quelli più poveri di noi. Quest’albero c’era già al tempo di tuo nonno, venuto su da un seme arrivato qui chissà come. Non l’abbiamo piantato noi: è come se Dio l’avesse affidato alle nostre cure, ma per gli altri. Per questo, anche se verrebbe voglia di gustarne i frutti, è più bello ancora fare un sacrificio per un’opera buona. Del resto, la Provvidenza non ci ha fatto mai mancare il necessario, nemmeno nei momenti più duri. I poveri sono importanti, sono i prediletti del Signore. Ricòrdatelo sempre!».

E nonno Umberto continuò: «Da allora agli occhi di Nelson quell’albero acquistò ancora più valore. Più obbediente di Eva e di Adamo, che nel giardino dell’Eden avevano mangiato il frutto proibito, non si azzardò mai a cogliere quelle mele considerate dono del cielo. E una volta cresciuto fece di più: avendo capito che Dio lo chiamava a farsi prete, si dedicò ai più poveri ed emarginati della stia terra, di cui conosceva le ricchezze umane. Sognava una Colombia diversa, che non fosse sinonimo, agli occhi del mondo, di droga e violenza. Quando sarai più grande, Stefy, ti racconterò altre cose del mio amico. Oggi ti dico soltanto che la sua vita – ora che è giunto al traguardo – la vedo un po’simile al bellissimo melo, carico di frutti, del campicello paterno». (Fonte: Città Nuova)