Il Messaggio per la Santa Pasqua 2022 del vescovo mons. Giuseppe Schillaci
1. Non smettiamo di pensare e sognare in grande
Il mondo intero, da più di due anni a questa parte, sta attraversando momenti davvero difficili. A causa dell’esplosione della pandemia da Covid-19 tutta l’umanità si sta confrontando con un periodo di grande incertezza, di pericolo, di paura, di angoscia, per sé, per i propri cari, per tutti; stiamo tutti vivendo momenti di preoccupazione per la nostra vita. Gli eventi, sovente, ci spingono a chiuderci, trincerandoci, vuoi per difesa della nostra vita personale, vuoi anche perché temiamo per la vita degli altri. Il mio auspicio è che sia questo principio a guidare le scelte personali, ma in particolare quelle istituzionali: la tutela delle persone più fragili, più vulnerabili, più bisognose, più povere.
La morte, purtroppo, con la pandemia ha bussato alle porte delle nostre case, molte volte e in molti modi: quanti parenti, amici, conoscenti; tanti, troppi. Una pandemia che ha portato dolore, sconforto, paura, smarrimento, tristezza; credevamo fosse, come lo è ancora, cosa molto gravosa e preoccupante, ma come se non bastasse ecco presentarsi un’altra calamità: una guerra. Quest’ultima si aggiunge alle tante guerre a pezzi, come più volte ci ricorda papa Francesco, combattute e spesso censurate, nel nostro tempo e sul nostro pianeta. Faremmo bene tutti a ripudiare definitivamente la guerra in ogni sua forma, a partire dal nostro pensare, dal nostro modo di parlare, per giungere ai nostri comportamenti. Da diversi giorni, ormai, non si parla altro che di scontri, e non vediamo altro che immagini, purtroppo reali, di battaglia, di distruzione, e ancora di morte; sto dicendo di un conflitto che covava da anni in seno all’Europa: tra Russia e Ucraina.
Mai più la guerra! aveva detto Paolo VI in un famoso discorso pronunciato all’ONU il 4 ottobre del 1965. Mai più gli uni contro gli altri, perché, drammaticamente, con la guerra si mette fine alla convivenza umana e tutto è perduto. Sappiamo, o meglio ci pare evidente, che la guerra distrugge, la pace costruisce! La guerra non può essere pensata, programmata e attuata come metodo e strumento per la risoluzione dei conflitti. Citando John Kennedy, Paolo VI diceva a tal proposito: “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”. Perciò il Santo Padre auspicava: “Non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità”. Siamo dinanzi ad un appello di grande portata, più volte ripreso dai Pontefici del ‘900: dall’inutile strage di Benedetto XV nel 1917, all’alienum est a ratione di Giovanni XXIII della Pacem in terris del 1963; dall’avventura senza ritorno di Giovanni Paolo II nel 1991 fino agli ultimi appelli di Papa Francesco nei quali egli chiede di porre fine alla follia della guerra e al conseguente massacro di vite umane innocenti. La guerra – ci dice ancora papa Francesco – “Non dimentichiamo: è una crudeltà, disumana e sacrilega!” (Angelus del 20 marzo 2022).
Facciamo in modo che ritornino alla mente e ai cuori questi ripetuti appelli, che si sono succeduti nel tempo, perché il nostro mondo non ricada più nella barbarie e nell’orrore della guerra, che lascia gli uomini in preda degli istinti più distruttivi della propria e dell’altrui umanità, come l’odio, il rancore, la vendetta, la prevaricazione, la violenza. Ogni guerra, non dimentichiamolo mai, lascia che prevalga negli uomini l’irrazionalità che mina alla base le relazioni tra le persone umane e la pacifica convivenza sociale e civile tra i popoli, seminando, insieme alla morte e alla distruzione, solo traumi, dolore, ferite, che non sarà facile lenire, sanare, guarire. Perciò non può mai esistere una “guerra giusta” perché a pagarne il prezzo più alto è sempre chi conta poco e niente: i bambini, le donne, gli anziani, i poveri. Si tratta di persone in fuga che, adesso, stiamo cercando di accogliere anche nella nostra terra di Calabria, grazie al grande cuore della nostra gente che ha risposto prontamente e generosamente ad iniziative di solidarietà. Tutto questo manifesta, una volta di più, come la nostra Calabria è bella non solo per il paesaggio, i mari, i monti, le tradizioni, la cultura, ma soprattutto per la mente e il cuore delle persone che la abitano! Mi sento di esortarvi tutti, fratelli e sorelle, ad accogliere chiunque giunge da noi, ma con dignità. Proviamo a fare bene il bene!
Per questo è sempre più urgente, da parte nostra, ritrovare il significato più profondo della nostra esistenza, che può, certamente, aiutarci a capire che non si vive pensando prima di tutto all’altro come a un nemico o a una minaccia per la nostra (la mia) esistenza personale, per il nostro (il mio) gruppo, per la nostra (la mia) comunità. L’altro e gli altri non esistono per togliere qualcosa alla mia, alla nostra e all’altrui esistenza, ma per arricchirla sempre di più. L’altro è un dono, è una risorsa. Siamo circondati di doni, di risorse infinite. L’altro è una persona da considerare sempre come un fine mai come un mezzo. La diversità di cultura, di razza, di lingua, di religione, di sesso, fanno la ricchezza e la bellezza della nostra umanità.
Il pericolo nasce quando si afferma il pensiero unico, l’omologazione; quando prevale quella visione totalitaria che non solo nega la diversità e la pluralità, ma impedisce che le alterità, presenti in natura e nella vita in generale, possano esprimersi, manifestarsi e svilupparsi nella loro unicità e originalità. Perciò è sempre più urgente educare all’inclusione e all’accoglienza di colui che è diverso, che è altro da me perché unico. In questo senso l’altro viene sempre prima di me! Appare sempre più urgente, oltre che necessario, uscire dal paradigma secondo cui la vita umana consista essenzialmente nell’avere, nel possedere sempre di più, accumulare per accrescere il proprio potere, la propria forza, diventare più importante, sovrastare e dominare gli altri. Usciamo definitivamente da questa logica che spinge l’uomo a prevalere sull’altro, a vincere a tutti i costi, che ha come unico scopo mettere sé stesso al centro di tutto e di tutti.
Bisogna, invece, non smettere di desiderare di imparare dagli altri, dalla storia, dalla cultura, dalla natura che ci circonda, dalla ricchezza della realtà con la quale ogni giorno ci confrontiamo. Certamente essa non si presenta a noi sempre docile, arrendevole, semplice, ma rimane pur sempre straordinaria. Educhiamoci ed educhiamo allo stupore, alla meraviglia, nei confronti della realtà e della vita degli altri da cui non finiremo mai di apprendere qualcosa. Forse è necessario che ciascuno di noi liberi il proprio desiderio di bene che custodisce nel proprio cuore, perché possiamo sempre più “imparare ad imparare”. Si impara da tutti, da quelli che la pensano come me o come noi, ma anche da coloro che non la pensano come me o come noi; come si impara non solo da coloro che contano, per fama, per conoscenze, per competenze, ma anche da coloro che, pensiamo, non contino, non valgano proprio nulla. Impariamo dai più piccoli: “Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18, 1-5) – Così risponde il Signore Gesù ai suoi discepoli che gli domandano: chi è il più grande nel regno dei cieli? – Egli dice questo chiamando e ponendo in mezzo a loro, a quelli che sono e che saranno i suoi discepoli, un bambino.
In questa significativa pagina del Vangelo, di gesti e di parole, proviamo a collocare anche il nostro cammino sinodale che, come Chiesa, abbiamo intrapreso e che ci accompagnerà per i prossimi anni. Non smettiamo di ascoltare cosa dice lo Spirito alla nostra Chiesa, non smettiamo di ascoltare la Parola, non smettiamo di ascoltare gli altri, di ascoltare tutti con grandezza d’animo, apriamo sempre più la nostra mente, il nostro cuore: facciamolo senza barriere, senza preconcetti, soprattutto senza paura! Dilatiamo gli orizzonti personali, sociali, culturali, religiosi. Non smettiamo di pensare in grande. Non smettiamo di sognare in grande!
2. Nella compagnia della fede
Il discepolo non finisce di pensare e di sognare in grande, anche nei momenti più duri e più difficili con cui non di rado è chiamato a confrontarsi e a fare i conti. Il vero discepolo lo fa perché segnato una volta per sempre da quell’incontro con la persona di Gesù Cristo che gli ha stravolto la vita cambiandogliela. Il discepolo credente, credibile e missionario, pensa, valuta e sceglie sempre alla luce di Cristo che gli ha preso la vita non in parte o a compartimenti stagni, ma nella sua interezza. Gesù Cristo è e rimane il principio, il fine, il fondamento che guida e orienta incessantemente l’esistenza del discepolo sia nei momenti ordinari che nei momenti straordinari della sua vita. Colui che ha incontrato il Signore si è lasciato afferrare non per appropriarsi di un rapporto esclusivo che lo porti solo a classificare, a giudicare, a condannare, a rifiutare, a scartare gli altri, ma perché, al contrario, il rapporto con il Signore gli dona quella capacità di fare spazio a tutti e ad ognuno, di dilatare i suoi orizzonti, di accogliere, di includere, di aprire ed avviare processi, sempre e con chiunque speranzoso. Afferrato da Cristo, il vero discepolo consegna solo amore, gioia, fiducia, speranza a tutti, soprattutto ai più fragili, ai più poveri, agli esclusi, ai dimenticati, non per pietismo, ma per generosa gratuità, per pura bontà e fedeltà.
Vorrei, davanti a questi strani giorni, tribolati, pesanti, difficili, che provassimo a ritrovare il senso della nostra esistenza alla luce del giorno dei giorni: la risurrezione di Cristo. Cerchiamo tutti di celebrare veramente con la vita e nella vita la Pasqua del Signore. Andiamo per un momento alla sera di quel giorno, altro, nuovo, unico, di quell’alba senza tramonto; quel giorno, così differente dagli altri, due discepoli (cfr. Lc 24, 13-35) tornavano delusi, sconsolati, tristi, chiusi in loro stessi per l’evento al quale avevano assistito, non da spettatori distaccati, ma come parte in causa, perciò pienamente coinvolti. Il loro Gesù, nel quale avevano posto tutta la loro vita e la loro fiducia, era stato arrestato, deriso, processato, condannato alla morte e alla morte in croce. Il Cristo, morto di una morte ignominiosa, come un ladro e un brigante, crocifisso tra due malfattori fuori dalle mura della Città di Gerusalemme. Escluso tra gli esclusi! Ma non era lui il Messia nel quale avevano creduto e sperato? Colui che avrebbe potuto e dovuto liberare il popolo di Israele e ridare giustizia, dignità ad ogni uomo e ogni donna che vive in questo mondo? Ci troviamo con due discepoli, non diversi dagli altri, che lo avevano seguito, che lo avevano pure abbandonato, perché nella loro mente, molto probabilmente, c’era un’altra idea di messia; l’inviato, l’unto del Signore, lo immaginavano forte, glorioso, straordinario, potente, invincibile. Non un messia debole, in balia degli uomini, impotente, sconfitto, addirittura crocifisso. Poteva essere lui il Messia? Un messia crocifisso? Dove erano finite le sue parole, le sue opere?
Durante il loro cammino, in quello che è il giorno fondamentale e decisivo, per la loro vita di discepoli e di credenti – ma anche per quella di tutti gli altri, della storia e dell’umanità intera -, si legge anzitutto delusione, amarezza, scoramento, sfiducia. Ci troviamo davanti due uomini, di uno sappiamo pure che si chiama Clèopa, che sono in cammino verso un villaggio di nome Emmaus. Sono compagni di strada…! Camminano insieme, non sono distanti l’uno dall’altro, ma l’uno accanto all’altro. Due uomini che, nonostante l’avvilimento dell’insuccesso, quel peso grande che rallenta il passo e che affatica la mente e il cuore, ci narra il Vangelo, “conversavano tra di loro di tutto quello che era accaduto” (Lc 24,14). L’accaduto è ancora oggetto dei loro pensieri e della loro conversazione. I due discepoli, come gli altri, non hanno vissuto un evento qualsiasi, ma hanno assistito all’avvenimento per eccellenza del cristianesimo, la passione, la crocifissione, la morte di Cristo e, seppure con molta incredulità e diffidenza, hanno ascoltato il racconto di alcune donne, le quali sono corse repentine a dire alla comunità degli apostoli e dei discepoli di avere avuto una visione di angeli, i quali affermano che Gesù è vivo, è risorto!
Le donne hanno ascoltato questo dire, che risuona ancora, oggi, per noi e per tutti: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto” (Lc 24,5-6a). Questo messaggio le donne non l’hanno tenuto per sé stesse, ma lo hanno comunicato agli altri loro compagni di strada. Sappiamo tuttavia che le donne, come pure gli altri discepoli, non avevano ancora capito che quella fosse la Pasqua del Signore, cioè che si trovavano di fronte e dentro l’evento generativo e rigenerativo, al cuore della vita credente. Non capivano ancora, pienamente e interamente, quell’evento. Si tratta dell’avvenimento da cui ripartiranno con rinnovato entusiasmo; evento dal quale tutti siamo chiamati a ripartire, anche quando tutto sembra perduto e pare non esserci più alcuna prospettiva di futuro.
La Chiesa tutta, la comunità dei discepoli, riparte da lì! L’avventura riparte da questa compagnia, da questa conversazione, da questo dialogo, da questa vicinanza, da questa apertura di cuore, che giunge come una grazia, come un dono offerto da Colui che sembra presentarsi, con molta discrezione, come uno sconosciuto, un estraneo, un forestiero. Proviamo a ripartire dalla fiducia, dalla speranza e dall’amore che il Signore Risorto mette nel cuore di ciascuno e di tutti. Quant’è importante non perdere mai la capacità di aprire il proprio spirito alla conversazione con l’altro e con gli altri! La capacità di dialogo è una delle peculiarità proprie dell’essere umano. L’uomo è dia-logo malgrado tutto! “Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro” (Lc 24, 15). Il testo ci dice che è proprio in questa dimensione dialogica e relazionale che Gesù in persona si avvicina e cammina con loro, anche quando non sono, quando non siamo, capaci di riconoscerlo.
Gesù cammina con loro “ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo” (Lc 24,16). Cosa impedisce a quegli occhi di riconoscere il Signore che cammina accanto a loro? Cosa impedisce oggi anche ai nostri occhi di riconoscerlo? Saranno i nostri pregiudizi, saranno le nostre chiusure, sarà la nostra indifferenza, sarà il nostro egoismo? Sarà il nostro rancore, la nostra invidia, il nostro orgoglio, il nostro odio, cos’altro…? I discepoli sono incapaci di vedere perché impediti. Cosa impedisce a loro e a noi di vedere? Ciò nonostante, il Signore si inserisce nella loro conversazione, entra nei loro discorsi, con questa domanda: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?” (Lc 24,17). La loro cecità si tramuta in tristezza: “Si fermarono, col volto triste” (ibid.). Quello che immaginavano non si è realizzato, quello che per loro poteva essere non è stato: “Noi speravamo che fosse colui che avrebbe liberato Israele” (Lc 24,21).
Quanta tristezza a volte nel nostro cammino della vita per cui anche noi esclamiamo: noi speravamo! Quanti rimpianti, quante amarezze, nei nostri discorsi, per cui non si intravede alcuna luce, non si scorgono più prospettive e orizzonti. Non c’è più alcuna visione! Tutto è chiuso, è finito; non c’è più alcuna speranza! Quello che traspare dai discorsi dei due discepoli di Emmaus, tante volte viene fuori anche dai nostri. Possiamo noi cristiani lasciarci vincere da questa ineluttabilità disperata?
Non scordiamo che siamo stati chiamati a seguire il Signore che si mette accanto a noi e che non dispera mai di nessuno. La sua domanda dischiuda sempre di più il nostro spirito, rianimi il nostro camminare insieme. Sì, cari fratelli e sorelle, presbiteri, diaconi, religiosi, religiose, seminaristi: camminiamo tutti insieme, facciamolo con gioia, senza alcuna remora, con grande apertura d’animo. Quali sono i nostri discorsi? Di cosa sono riempiti? Quale narrazione attraversa la nostra esistenza di discepoli e credenti nel Signore Risorto, oggi, in questo tempo strano, difficile, complesso, spesso drammatico?
Contempliamo, Lui, il Signore Gesù, Risorto in mezzo a noi; viviamo di Lui e per Lui. Egli è colui che anzitutto si avvicina, si mette accanto, si fa prossimo. Il Signore Risorto è prossimo nel prossimo, è il vicino per eccellenza. La comunità dei discepoli, alla sequela del Risorto, non può non prendere sul serio questa modalità, cioè mettersi accanto agli uomini e alle donne del nostro tempo, farsi prossimo di tutti, soprattutto di coloro che camminano più lentamente rispetto a tutti gli altri: gli ultimi!
La Chiesa è nel mondo come il buon Samaritano, si muove a compassione. Vive di un amore viscerale. Lungo il cammino della vita non si gira mai dall’altra parte. Una Chiesa capace anzitutto di vedere, prima ancora che cominci a capire e a discernere. Donaci Signore occhi per vedere, lungo il cammino, l’umanità smarrita, sfinita, stanca, ferita, sofferente, mezza morta… Siamo chiamati a camminare insieme, mettiamoci accanto a tutti senza pregiudizi, senza muri o barriere. Ascoltiamo, semplicemente, ascoltiamo! Nel Signore che si pone accanto scorgiamo sempre più il paradigma del nostro camminare insieme, tra di noi e con tutti. Sì, proprio con tutti! Riscopriamo sempre di più il nostro essere figli e il nostro essere fratelli: “Fratelli tutti”.
La Chiesa è camminare insieme; una compagnia nella fede che cammina insieme e fa camminare insieme, nella misura in cui si lascia guidare dallo Spirito del Risorto. Il nostro cammino sinodale in questi anni, nella Chiesa universale, ma anche nella nostra Chiesa che è in Lamezia Terme, è mosso da un desiderio profondo di vivere questo tempo nella piena docilità allo Spirito e nella disponibilità all’ascolto. Ascoltiamo il Signore, ascoltiamo quello che lo Spirito dice oggi alla Chiesa e alle Chiese per ascoltare gli altri, per ascoltare tutti. Ascoltiamo, in particolare, coloro che nessuno ascolta, che nessuno prende in considerazione. Ripartiamo da Lui che parla nella sua Parola, contenuta sia nella forma scritta che nella Sacra Tradizione, nella Liturgia, nel Magistero, nella storia, nei fratelli e nelle sorelle, nei piccoli della terra, nella nostra casa comune, negli eventi tristi e gioiosi che ogni giorno ci è dato vivere ed attraversare. Ascoltiamo Lui dentro e oltre! Prestiamo ascolto, attenzione, cura, nei confronti di tutti con gioia grande e amore.
3. Ascoltando la narrazione
Alla luce di tutto questo, mi permetto dire a nome di tutti: Signore apri i nostri occhi perché possiamo vedere, apri anche i nostri orecchi perché ci sia concesso di ascoltare. Donaci, Signore – come ci dice il nostro Papa Francesco – “occhi che ascoltano”. Fa’ che possiamo sentirci sempre più coinvolti, insieme, ciascuno con la propria sensibilità, originalità e unicità, con tutto noi stessi, per ricomporre la realtà che ci circonda, che rischia fortemente di andare in frantumi. Lasciamoci comunque interpellare seriamente e responsabilmente dalla realtà che abitiamo e che tutti ci riguarda. Proviamo a vedere come il Signore vede la nostra umanità; proviamo ad ascoltare come il Signore ci ascolta.
La Scrittura ci dice che il Signore ascolta il grido del povero, della vedova, dell’orfano, del forestiero (cfr. Es 20, 22). Egli ascolta pure questi discepoli che camminano con tutta la loro fragilità, da sconfitti, da scoraggiati, avendo perso l’entusiasmo della prima ora; camminano per inerzia, ma forse non hanno più una visione, non riescono a trovare un orizzonte di senso nel loro camminare insieme, non c’è intelligenza nei loro discorsi, non c’è passione.
Quante volte anche noi camminiamo per abitudine, per convenzione, senza convinzione, ci trasciniamo senza una meta, senza un perché; nel nostro cammino non c’è pienezza, non c’è gioia! È il Signore che prende l’iniziativa e si mette accanto, ascolta con semplicità il loro racconto: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?” (Lc 24,18). Il Signore pone i suoi interlocutori nelle condizioni migliori perché attraverso il loro racconto venga fuori, nella sua verità, il senso della loro vita, del loro camminare insieme, in chi e in che cosa hanno posto tutta la loro fiducia.
Il cammino sinodale che ci è concesso di vivere in questo tempo necessita di un atteggiamento, diciamo di uno stile, che permetta di ascoltare, con docilità d’animo, con grande apertura e rispetto, tutte le narrazioni. Siamo chiamati a narrarci il nostro essere discepoli del Signore, ma anche il nostro essere discepoli insieme ad altri discepoli; come viviamo la nostra esperienza di fede, ma anche la nostra compagnia nella fede. Narriamoci la nostra sequela, ma anche il nostro essere Chiesa, la nostra comunione, la nostra appartenenza, la nostra missione.
Mi permetto di sottolineare che c’è narrazione e narrazione. La nostra narrazione non prendiamola come un momento formale, giusto per toglierci un pensiero o per riempire un questionario. Apriamo veramente il nostro cuore alla verità, alla sincerità, allo scambio fraterno, alla creatività. Che diventi uno stile di vita ordinario! Soprattutto noi presbiteri, diaconi, religiosi, religiose, seminaristi, non abbiamo paura ad ascoltare anche quello che non ci fa piacere, perché ci turba o ci mette in questione. Accogliamo questo tempo come un autentico momento di grazia. Lasciamo che muoia l’uomo vecchio perché nasca l’uomo nuovo. Ricordiamo quello che dice San Paolo: “Se uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove” (2 Cor 5,17).
In Cristo la narrazione giunge alla sua pienezza e al suo compimento. È il Signore Risorto, vivo, presente, che ci precede sempre, ma è accanto e in mezzo a noi. La sua vicinanza e la sua prossimità ci spingono a non rimanere rintanati in una pastorale della conservazione, ma a lasciarci nuovamente afferrare da Lui per uscire da noi stessi e osare la missione.
Il profeta Isaia ci ricorda come è il Signore che fa una cosa nuova, è Lui che prende l’iniziativa, lasciamoci amare, ma amiamolo amando tutti: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43, 18-19). Osiamo dunque! È l’ora! Lasciamo che il Signore Risorto ci parli ancora. Per questo non abbiamo paura di ascoltarlo quando ci dice: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24, 25-26). È Lui la spiegazione, è Lui il senso, è Lui l’intelligenza, è il Lui il cuore, è Lui la sorgente di ogni apertura; è Lui la nostra fede, la speranza, l’amore che ci spinge ancora ad andare. Sì, discepoli missionari, discepoli chiamati a camminare insieme ad altri discepoli, a porre questo segno mite, schietto, coraggioso, puro, vero, credibile, di autentica comunione.
Ascoltiamo la narrazione del Signore che svela il significato profondo della nostra esistenza personale e comunitaria. Seguiamo il Signore, il suo stile, come solo Lui sa fare. Egli dà loro la parola perché manifestino il loro cuore, le loro delusioni, le loro frustrazioni, il loro allontanamento dall’amore di un tempo. Anche noi proviamo a dare la parola ai vicini, ma anche ai lontani; non temiamo di dare la parola a tutti: a quelli che ci stanno accanto con passione, entusiasmo, dedizione e sacrificio, che sono ancora tanti, ma anche a coloro che hanno qualcosa da rimproverarci, da criticare, da ridire. Non abbiamo paura a dare la parola, a fare spazio agli altri. Usciamo, proviamo ad andare più lontano di noi stessi, osiamo il futuro, guardiamo oltre, ascoltiamo l’inaudito! Il Signore è Risorto, cammina accanto, ci precede e ci segue, ci attraversa e ci oltrepassa, ci è vicino e ci è estraneo, ci sostiene e ci inquieta, ci interpella, ma solo per amore.
4. Il senso del nostro camminare insieme
Lasciamo che il Signore Risorto continui a parlarci ancora lungo il cammino: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24, 32). Lungo quella via che non solo Egli indica, percorre, attraversa, ma che soprattutto incarna. Oggi, lungo questa via, noi tutti avvertiamo un insopprimibile bisogno di questa conversazione: dialogica, amica, franca, coinvolgente, aperta… Sentiamo forte l’esigenza che il Signore parli a noi, che illumini la nostra mente e scaldi il nostro cuore, perché parliamo gli uni con gli altri per costruire una esistenza con gli altri e per gli altri, per edificare un mondo più fraterno, più giusto, più umano, più bello.
Predisponiamo il nostro animo a raccontarci, gli uni gli altri, a dirci soprattutto la Parola che conta, la Parola che salva, la Parola che dà la vera vita, perché vita senza fine, vita eterna. Ascoltiamo il Signore, il suo Vangelo, lasciamo che parli Lui al nostro cuore. L’uomo ha bisogno di parole vere, di parole che scaldino il cuore, che tocchino intimamente e integralmente la nostra vita. Parole che manifestino la profondità e il mistero di Dio e dell’uomo. È il Signore Risorto che con la sua Parola riaccende in noi il desiderio di vita, rafforza la speranza, dona la gioia. Non abbiamo bisogno di parole vuote, formali, di circostanza o peggio ancora di parole presuntuose, arroganti, sprezzanti, che giudicano, che condannano, che separano, che dividono, che scartano.
Cristo Risorto è la nostra pace e la nostra riconciliazione. Il Signore dimora dove c’è un cuore riconciliato e pacificato dal quale sgorgano parole vere, parole che aiutano, che promuovono, che risanano, che consolano, che amano. Di questi cuori, in questo nostro tempo, c’è bisogno! La Parola del Signore ispiri, nutra, sostenga sempre più le nostre parole perché queste non la occultino, ma la manifestino nella ricchezza della sua misericordia e bontà, nella varietà della sua armonia e bellezza per noi e per tutti.
Mettiamoci umilmente alla scuola della Parola del Signore Risorto. La sua è una Parola che fa spazio, che educa, che promuove. Il Signore non disprezza mai nessuno, egli è venuto perché tutti “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Egli è, infatti, il Signore dei vivi non dei morti, perché tutti vivano per lui (cfr. Lc 20, 28). Il Signore Risorto, il Vivente, “l’Alfa e l’Omega”, “il Primo e l’Ultimo” (Ap 1,8; 2,8), guidi sempre più i nostri passi sulla via della pace, della riconciliazione, dell’amore, tra di noi e con tutti. Faccia di noi, suoi discepoli, un segno credibile del suo smisurato amore, a partire dalle nostre case, chiese domestiche, alle nostre comunità parrocchiali della nostra diocesi; dal nostro presbiterio, ai diversi gruppi ecclesiali e alle aggregazioni laicali. Le nostre relazioni siano sempre più intessute di sentimenti di pace, di concordia, di misericordia, non di ostilità, di inimicizia, di violenza, di guerre di ogni tipo. Impariamo dal Signore che ha sempre progetti di pace, per noi e per tutti, non di sventura (cfr. Ger 29, 11).
Noi, discepoli del Signore Risorto, insieme, desideriamo alimentare tutta la nostra esistenza di questi pensieri, di questi progetti, di questi stili di vita, per la nostra terra, per la nostra città di Lamezia Terme, per la Calabria, per l’Italia, per l’Europa, per il mondo intero. Il discepolo alla sequela di Gesù Risorto fa del bene sempre, del male mai a nessuno. È nostro fermo proposito lasciarci sempre più guidare da Colui che da forestiero, da estraneo, non considera nessuno forestiero, nessuno estraneo; “Colui che è, che era e che viene” (Ap 2,8), che non esclude mai nessuno, semmai si lascia escludere, si lascia allontanare, ma non allontana mai nessuno. Egli dona la sua vita perché nasca e rinasca continuamente l’uomo nuovo, il figlio, il fratello, che coltiva, costruisce, perché ama, la pace: “In Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli, infatti è la nostra pace, colui che dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la legge, fatta di prescrizioni e decreti, per creare in sè stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutte e due con Dio in solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in sè stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2, 13-18).
Sei tu Signore la nostra pace, fa’ che ciascuno di noi viva di Te. Resta sempre con noi, Signore, perché, pieni di Te, possiamo condividere quello che anzitutto e soprattutto viene da Te, nient’altro che la tua bontà, la tua misericordia, il tuo amore. Donaci di porre gesti concreti di bene, di condivisione, di solidarietà, nei confronti di tutti. Fa’ di noi dei veri artigiani di riconciliazione, di misericordia, di pace. Il meraviglioso annuncio della tua Pasqua, Signore Dio nostro, raggiunga ciascuno di noi, in questo tempo di cammino sinodale, conceda ai nostri cuori quella docilità e disponibilità a lasciarsi condurre dal tuo Santo Spirito. Signore, tu che sei il Principe della pace, tutti insieme ti domandiamo, con tutte le nostre forze e con insistenza, oggi e sempre, il dono della pace per tutti gli uomini, per tutti i popoli della terra.
Sì, la pace è il dono del Risorto! Ogni uomo e ogni donna a questo aspira, la pace dentro e fuori di noi; consapevoli che dalla pace scaturisce la vera convivenza sociale, l’amore politico, il bene che circola tra le persone, che si traduce in accoglienza, concordia, armonia, amicizia, convivialità delle differenze. Contribuiamo da buoni cristiani a edificare quella civiltà dell’amore dove si possa respirare sempre più un clima di vera fraternità, una umanità nuova.
Tutto questo impariamolo dal Signore Gesù, dal suo Vangelo. Ci guidi il suo camminare con noi, che sa mettersi accanto a ciascuno di noi e a tutti, il suo ascolto, il suo saper dare la parola, il suo amore, la sua condivisione, la sua compassione, il suo stile di vita. La sua vita nella nostra vita. Da autentici discepoli di Gesù di Nazaret, il Risorto, è nostro desiderio vivere come Lui, di Lui e per Lui, che “passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo perché Dio era con lui. E noi siamo suoi testimoni” (At 10, 38-39). Siamo i testimoni del Risorto, i testimoni di Gesù, nella Chiesa e nel mondo, chiamati a camminare insieme e a far camminare insieme tutti.
Cristo Risorto sia sempre di più il punto fermo, il senso, la ragione fondamentale, di questo nostro camminare insieme, al fine di portare a tutto il mondo e ad ogni creatura la buona e la bella notizia del Vangelo, mai con arroganza, prevaricazione, violenza, ma con gioia, dolcezza, rispetto, coraggio, amicizia, fraternità, comunione, fiducia, bellezza. Maria Regina della Pace, Madre della consolazione e della speranza, custodisca questi santi propositi e ci sia di aiuto ora e sempre. Amen.
Cristo è risorto!
Alleluia!
È veramente risorto!
Alleluia!
Fraternamente in Cristo