ANNO C (Gv 20, 19-31)
Mentre i discepoli si trovavano la sera di Pasqua sbarrati in casa per paura dei capi giudei, Gesù si presenta in mezzo a loro, al centro della sua comunità di discepoli, quale fonte di pace e salvezza. È il crocifisso-risorto, l’agnello pasquale liberatore e potente, dinanzi al quale i discepoli esplodono di gioia. Gesù aveva detto loro: «ora siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,22-23). In questo nuovo inizio di vita, il Signore ripete il suo annuncio di salvezza realizzata (l’espressione «pace a voi» si ripete per tre volte in questo brano del Vangelo) e trasmette ai discepoli la sua stessa missione ricevuta dal Padre. Soffiando su di loro il suo alito di vita comunica lo Spirito Santo: è la Pentecoste giovannea. Come Gesù ha la facoltà di eliminare il peccato del mondo, così i discepoli nella loro globalità godono della stessa ampiezza di potere salvifico a beneficio degli uomini: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,22-23). La pienezza di potestà viene espressa dandone gli estremi opposti: rimettere e ritenere. Si tratta quindi di un intervento salvifico attraverso cui Gesù rimette il peccato: è il sacramento della riconciliazione, del perdono, è la festa della divina misericordia, che il Signore vuole concedere a tutti. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica (numero 1441) è scritto: «Dio solo perdona i peccati. Poiché Gesù è il Figlio di Dio, egli dice di se stesso: “Il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati” (Mc 2,10) ed esercita questo potere divino: “Ti sono rimessi i tuoi peccati!” (Mc 2,5). Ancor di più: in virtù della sua autorità divina dona tale potere agli uomini affinché lo esercitino nel suo nome». Dopo otto giorni (l’ottavo giorno è l’inizio della nuova creazione, è il giorno del Signore, la domenica) Gesù riappare ai discepoli e si rivolge a Tommaso, assente nell’apparizione della sera di Pasqua: «metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente!» (Gv 20,27). Gesù si espone a Tommaso con tutte le ferite aperte, diventate feritoie di luce, dell’amore divino: «Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5). Tommaso formula la sua personale adesione di fede a Gesù crocifisso e risorto attraverso i due titoli di “Signore” e “Dio”. “Signore mio e Dio mio” è una professione di fede nel mistero divino di Gesù, applicando a lui i due nomi di Dio dell’Antico Testamento, JHWH e Elohim. È la fede della Chiesa di tutti i tempi che fa proprie le stesse parole di Tommaso. L’aggettivo “mio” non indica possesso ma appartenenza, donazione: Gesù è l’amato senza il quale la Chiesa non può vivere. Ritornano così le parole del Cantico dei Cantici: «il mio diletto è per me e io per lui» (Ct 2,16).
Don Pino Fazio