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Attualità

Il Servo di Dio Rosario Livatino

Giovanni Gigliotti · 4 anni fa

Trent'anni dopo essere stato trucidato dai mafiosi della “Stidda”, il giudice Rosario Livatino sale agli onori degli altari per volere di Papa Francesco. Il 21 dicembre 2020, infatti, il Santo Padre ha autorizzato la Congregazione delle cause dei santi a promulgare il Decreto riguardante il martirio del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino, fedele laico, nato a Canicattì, in provincia di Agrigento, il tre ottobre 1952.
La motivazione del Decreto ripercorre i tratti salienti dell'esistenza di Rosario Livatino: la laurea conseguita nella facoltà di giurisprudenza dell'Università di Palermo, il 9 luglio 1975, con il massimo dei voti; la partecipazione attiva all'Azione cattolica e alla vita della propria comunità parrocchiale; l'ingresso in magistratura come uditore giudiziario il 18 luglio 1978; l'esercizio delle funzioni di Sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Agrigento, meritando la lode del Consiglio superiore della magistratura per la sua intensa laboriosità; l'assunzione il 21 agosto 1989 delle funzioni di magistrato del tribunale di Agrigento, ove ebbe a svolgere le funzioni di giudice della sezione penale; il conseguimento con lode del diploma della Scuola biennale di formazione in diritto pubblico regionale nell'università di Palermo.
Il Decreto ricorda l'agguato in cui Livatino venne ucciso il 21 settembre 1990 sulla strada statale 640 che conduce da Canicattì ad Agrigento, mentre viaggiava da solo, in automobile, per recarsi al lavoro in tribunale. La dinamica dell'omicidio si caratterizzò per la ferocia degli esecutori e per la mitezza della vittima. In fin di vita, infatti, prima del colpo di grazia esploso in pieno volto, Rosario Livatino si rivolse agli assassini con mitezza, domandando loro, in un appello estremo al ravvedimento: “Piccio' [picciotti, ragazzi] che cosa vi ho fatto?”. La causa dell'omicidio, accertata con sentenza passata in giudicato, fu la “dirittura morale” del magistrato “per quanto riguarda l'esercizio della giustizia radicata nella fede”. Durante il processo penale emerse che il capo di uno dei gruppi mafiosi dominanti nel territorio dell'agrigentino “lo definiva con spregio santocchio per la sua frequentazione della Chiesa”, soggiungendo che l'agguato era stato in un primo momento pianificato addirittura dinanzi alla chiesa in cui quotidianamente egli faceva la visita al Santissimo Sacramento.
Il Decreto definisce che Rosario Livatino “era consapevole dei rischi che correva” e che continuò a esercitare il suo ministero di magistrato con rettitudine giungendo “ad accettare la possibilità del martirio attraverso un percorso di maturazione nella fede”, divenuta con il trascorrere del tempo sempre più consapevole e viva, ricordando che egli volle ricevere il sacramento della Cresima a trentacinque anni. Inoltre, il documento proclama che la sua testimonianza cristiana fu intessuta dalla partecipazione ai sacramenti e dalla preghiera assidua e che egli rifiutò la scorta per non esporre a pericoli altre persone, preferendo accettare il rischio per la sua vita piuttosto che pregiudicare l'esistenza di persone la cui morte avrebbe lasciato “vedove e orfani”. Conclude, infine, ricordando che Rosario si affidava nei momenti di scoraggiamento al Signore e che egli viveva costantemente confidando nella protezione di Dio, come è attestato documentalmente dalle sue agende personali ove appare sistematicamente la sigla Std a significare “Sub Tutela Dei”.
Il nove maggio 1993, Giovanni Paolo II in occasione della sua visita pastorale, in Sicilia, dopo aver incontrato ad Agrigento i genitori di Livatino, Vincenzo, laureato in legge e pensionato dell'esattoria comunale, e Rosalia Corbo, dirà degli uccisi dalla mafia: “Sono martiri della giustizia e indirettamente della fede”. Nella messa di commiato, il suo vescovo lo descrisse come giovane “impegnato nell'Azione Cattolica, assiduo all'Eucaristia domenicale, discepolo fedele del Crocifisso”. E' attestato il suo impegno affinché, nell'aula delle udienze, in tribunale, ci fosse un crocifisso. Ogni mattina, prima di entrare in tribunale, andava a pregare nella vicina chiesa di San Giuseppe.
Papa Francesco il 29 novembre 2019 all'incontro con i membri del Centro Studi Livatino, lo definí “un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l'attualità delle sue riflessioni. In una conferenza, riferendosi alla questione dell'eutanasia, e riprendendo le preoccupazioni che un parlamentare laico del tempo aveva per l'introduzione di un presunto diritto all'eutanasia, egli faceva questa osservazione: ‘Se l'opposizione del credente a questa legge si fonda sulla convinzione che la vita umana […] è dono divino che all'uomo non è lecito soffocare o interrompere, altrettanto motivata è l'opposizione del non credente che si fonda sulla convinzione che la vita sia tutelata dal diritto naturale, che nessun diritto positivo può violare o contraddire, dal momento che essa appartiene alla sfera dei beni “indisponibili”, che né i singoli né la collettività possono aggredire' (Canicattì, 30 aprile 1986, in Fede e diritto, a cura della Postulazione). Mi ritrovo molto in un'altra riflessione di Rosario Livatino, quando afferma: ‘Decidere è scegliere […]; e scegliere è una delle cose più difficili che l'uomo sia chiamato a fare. […] Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto, per il tramite dell'amore verso la persona giudicata.[…] E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l'uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione'”.