Scarperìa del Mugello, tranquilla cittadina di origine trecentesca a una trentina di chilometri da Firenze, è nota fin dai secoli XV e XVI per la produzione d’eccellenza di coltelli e di utensili agricoli e per la sartoria delle sue numerose botteghe artigiane, di cui alcune ancora attive: ne è testimonianza il Museo dei Ferri Taglienti ospitato nel quattrocentesco Palazzo dei Vicari che, insieme alle chiese di San Barnaba e degli Agostiniani, s’affaccia sulla piazza principale; museo che documenta l’ingegno, la creatività e il senso della bellezza profusi dall’uomo per realizzare strumenti umili, se si vuole, ma da sempre a lui necessari. Figli illustri della graziosa cittadina sono, tra i contemporanei, lo scrittore Nicola Lisi e la poetessa Margherita Guidacci, e andando più indietro nel tempo, lo scrittore, filologo e poeta Luigi Fiacchi detto Clasio, vissuto tra il 1754 e il 1825. Mi fermo a quest’ultimo, per un aneddoto che mi riguarda. Mia nonna materna non parlava che per sentenze: sempre, per assicurarsi l’ultima parola, ne aveva in serbo qualcuna con cui commentare un fatto o un sentito dire. Erano in genere motti o proverbi della sapienza popolare, ma che tradivano talvolta una derivazione colta o dalla Sacra Scrittura: eppure non aveva fatto grandi studi, nonna Concetta! Una di queste frasi, anzi un endecasillabo, è: «Potea, non volle; or che vorrìa non puote». Mia nonna la tirava in ballo ogni volta che voleva redarguire qualcuno che, non avendo approfittato del momento favorevole, si pentiva per l’occasione perduta. Da dove una citazione del genere e chi l’autore? Solo qualche anno fa ho scoperto la sua origine ne “I due susini” del Clasio, sacerdote, accademico della Crusca, insegnante di filosofia nel seminario fiorentino e nelle scuole leopoldine, ma soprattutto autore di favole morali in versi con le quali distribuiva manciate di saggezza e, perché no? insegnava in modo garbato e bonario le verità evangeliche ai rampolli delle nobili famiglie di cui fu istitutore. Del componimento di cui sopra riporto la prima sestina: «Se nella verde etade alcun trascura/ di lodato sapere ornar la mente,/ quando è giunta per lui l’età matura/ d’aver perduto un sì gran ben si pente./ Cercalo allora, ma trovasi a man vuote: potea, non volle; or che vorria, non puote». Al Clasio, definito l’”Esopo cristiano” e apprezzato da Leopardi, il comune di Scarperìa ha dedicato un busto e una lapide sulla facciata della sua casa natale. Rende finalmente giustizia a questo degno erede dei grandi favolisti del passato l’edizione critica della sua opera più popolare, “Favole e sonetti pastorali”, apparsa ultimamente per le romane Edizioni di Storia e Letteratura, a cura di Davide Puccini. Cento favole che si leggono con vero gusto: colte ma non affettate, sempre ispirate ai casi della vita reale, non scevre da acutezza psicologica. Vi si respira un’aria tersa e lieve, con una facilità cantabile che ricorda i poeti dell’Arcadia. In esse il favolista di Scarperìa si dimostra pienamente a suo agio anche con i più svariati tipi di metrica, vincendo così bravamente il rischio di monotonia. L’intento pedagogico tipico del genere fonde morale cristiana e saggezza popolare, il tutto condito con arguzia toscana. Riusciva, il buon Clasio, altrettanto accattivante nei suoi sermoni in chiesa? Non lo sappiamo. Ma se così fu – e perché dubitarne? – , dovette raccogliere un uditorio considerevole. (da Città Nuova)
La recensione
Le favole di Casio, il poeta del "paese dei ferri taglienti"
Gigliotti Saveria Maria · 8 anni fa