In occasione dell’apertura dell’undicesimo anno della scuola laboratorio di Dottrina sociale della Chiesa promossa dalla Diocesi lametina, Lamezia Nuova ha incontrato monsignor Fabiano Longoni, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Conferenza episcopale italiana.
Parlare oggi di evangelizzazione unita a lavoro ed economia potrebbe sembrare un controsenso, invece non lo è…
No, perché, appunto, Cristo che lavora entra nel mondo e diventa per noi un punto di riferimento su un modo di lavorare, su una capacità di annuncio rispetto al lavoro. Quindi, è importante capire che il lavoro è qualità e non è solo il mezzo attraverso il quale io ottengo il necessario per mangiare, per vivere, per ottemperare ai miei bisogni. Ma il lavoro, dal punto di vista spirituale, è un progresso che l’individuo fa attraverso le relazioni con gli altri e per gli altri, sapendo che dentro questa realtà c’è anche l’aspetto spirituale: Dio non è fuori dal mondo, ma Dio entra nel mondo ed anche in quello del lavoro e dell’economia e si tratta di distinguere, di promuovere un buon lavoro, un lavoro creativo, un lavoro libero, un lavoro partecipativo, un lavoro solidale perché è nella qualità del lavoro che passa il Vangelo. Io credo che ogni persona che lavora pienamente, convinta, per il bene di se stessa e degli altri fa passare il Vangelo. Quindi, non c’è dicotomia ma c’è unità.
Una volta si parlava di lavoro e di dignità del lavoro. Oggi sembra sempre più esserci un allontanamento tra il lavoro e la dignità. Come può un cristiano fare in modo che lavoro e dignità continuino a camminare insieme?
Deve farlo attraverso delle semplici regole. Anzitutto pensarsi non come un singolo, come un individuo, ma come una rete di relazioni. Io credo che un lavoro che voglia essere spirituale e vissuto da cristiani, o anche favorire il lavoro in questo senso da cristiani, significa innanzitutto sentirsi parte di una comunità e, quindi, vuol dire anche imparare a relazionarsi con gli altri, a non pensarsi solo individualmente ma in una sussidiarietà circolare, un termine che spiega che noi insieme possiamo collaborare. Io penso che insieme si possa costruire una modalità attraverso la quale si dà dignità e sviluppo ad un territorio e, quindi, dignità e sviluppo alle persone che lavorano in questo territorio ed in questo modo. Ad esempio, dei cristiani che appartengono al terzo settore economico e hanno la cooperazione oppure hanno delle piccole imprese o una modalità per cui lavorano all’interno della società, si uniscono ad imprenditori che hanno larghe vedute e capacità di ricadute sul territorio a livello sociale e ad amministratori disponibili a dare ai loro comuni una qualità di impegno. Credo che sia fondamentale non pensare al lavoro come ad un qualcosa di altro rispetto alla vita nella quale noi ci troviamo immersi e nella quale non possiamo non vivere il cristianesimo come una realtà quotidiana di esperienza.
In una società quale è quella odierna in cui massificazione, consumismo, globalizzazione sono le parole d’ordine, parlare del bene comune sembra quasi una voce fuori dal coro.
Io ho sempre un modo per spiegare il bene comune che è molto semplice: il bene comune non è tanto la sommatoria di beni individuali, quindi il bene di un individuo più il bene di un altro individuo che sarebbe il prodotto interno lordo di un Paese, cioè il benessere di tutti inteso come qualità del prodotto. Il bene comune, invece, è quando io all’interno di una moltiplicazione ipotetica faccio sì che non ci sia mai uno zero perché quando si moltiplica per lo zero, lo sanno anche i bambini, produco zero. Se invece nessuna persona si sente zero ma tutti con la propria capacità, anche quella minima, sanno dare qualcosa, anche il prodotto del tutto insieme costituisce il bene comune. Quindi, nessuno deve sentirsi emarginato, nessuno si deve sentire zero, ma tutti hanno qualcosa da dare e tutti devono essere aiutati e promossi nel darla. Questo è il bene comune spiegato in modo molto semplice: non la sommatoria di beni individuali ma un moltiplicatore del bene inteso come la capacità di ognuno messa al servizio dell’altro. E nessuno è assolutamente incapace di dare qualcosa, ma tutti possono dare qualcosa.
Un tempo si guardava alle nuove generazioni che rappresentavano il futuro di una società. Oggi, invece, i giovani sembrano essere un po’passati in secondo piano. Quale, invece, può essere il messaggio che oggi può giungere dalla Chiesa verso le nuove generazioni?
Io direi che innanzitutto la Chiesa debba sentirsi in relazione e deve aiutare il lavoro intergenerazionale. La vera ricchezza è quando le nuove generazioni hanno di fronte a loro un mondo adulto che li accoglie, li valorizza, fa esprimere le potenzialità che loro hanno molto più del mondo adulto che, chiaramente per tanti aspetti, è ancora un po’fermo, dando loro il coraggio di dare forza alle proprie idee. Cioè avere il coraggio di investire dentro questa realtà giovanile, ma nel dialogo tra generazioni. Qualche volta le vecchie generazioni dovrebbero rinunciare a qualche diritto acquisito in favore delle nuove generazioni. Questo è un discorso che riguarda anche certe modalità di conservazione da parte di qualcuno di un potere acquisito. L’idea di dire che qualche volta rinunciare a delle pensioni troppo alte a certe cose che sono veramente fuori da ogni equilibrio in favore delle nuove generazioni, come un nonno o un padre che, magari, è in pensione e rinuncia a qualcosa di quello che ha ricevuto a favore di un giovane, è più importante e sarebbe una cosa assolutamente cristiana
Vita diocesana
Il bene comune è un moltiplicatore del bene inteso come la capacità di ognuno messa al servizio dell’altro
Gigliotti Saveria Maria · 8 anni fa