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Il Vangelo della domenica

Riflessione sul Vangelo della 33° Domenica del Tempo Ordinario

Paolo Emanuele · 10 anni fa

Avvicinandosi il termine dell’anno liturgico, la Chiesa ci fa ascoltare le parole del Signore che ci invitano a vegliare nell’attesa della parusia: “Bene, servo buono e fedele, sei rimasto fedele nel poco, ti darò autorità su molto, prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,23). Ad essa dobbiamo prepararci con una risposta semplice, ma decisa, all’appello di conversione, che Gesù ci rivolge chiamandoci a vivere il Vangelo come tensione, speranza, attesa .Nell’odierna liturgia della XXXIII domenica “per annum”, il Vangelo riporta la parabola dei talenti, ove Gesù vuol far intendere che chi aderisce a Lui nella fede e vive operosamente nell’attesa del suo ritorno, è paragonabile al “servo buono e fedele”, che in modo intelligente, alacre e fruttuoso cura l’amministrazione del padrone lontano. Che cosa significa talento? In senso letterale indica una moneta di grande valore usata ai tempi di Gesù. In senso traslato vuol dire “le doti”, che sono partecipate a ogni uomo concreto: il complesso delle qualità, di cui un soggetto personale, nella sua interezza psicofisica, viene dotato “dalla natura”. Tuttavia la parabola mette in evidenza che queste capacità sono al tempo stesso un dono del Creatore “dato”, trasmesso ad ogni uomo. Queste “doti” sono diverse e multiformi. Ce lo conferma l’osservazione della vita umana, in cui si vede la molteplicità e la ricchezza dei talenti che sono negli uomini. Il racconto di Gesù sottolinea con fermezza che ogni “talento” è una chiamata e un obbligo ad un lavoro determinato, inteso nel duplice significato di lavoro su se stessi e di lavoro per gli altri. Afferma, cioè, la necessità di un’ascesi personale unita all’operosità in favore del fratello. Con questo si vuole intendere che ognuno, con le proprie capacità che ha avuto da Dio, lavori su di sé per convertire ogni giorno il proprio cuore in un cammino di fede fatto con costanza e decisione, con volontà e generosità. Anche l’apostolo Paolo esorta a questo impegno: “Qualsiasi cosa facciate, o in parole o in opere, fate tutto nel nome del Signore Gesù rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di Lui” (Col 3,17); in tal modo, come ci ricorda la seconda lettura della liturgia di questa domenica, certi della redenzione di Cristo “sia che vegliamo, sia che dormiamo, viviamo insieme con Lui. Perciò confortatevi a vicenda, edificandovi gli uni gli altri come già fate” (1Ts 5,9-11). Uno dei segni più grandi di mancanza di lavoro su di sé, di assenza di ascesi è la non accettazione della propria persona, caratterizzata da quei talenti che sono da accogliere, perché dati da quel Dio di misericordia, che ci ha creati, ci tiene in vita e ci aiuta a percorrere le strade dell’esistenza. La parabola dell’odierno Vangelo parla pure di un talento “nascosto sottoterra”, non utilizzato. “Colui che aveva ricevuto un solo talento disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, per paura andai a nascondere il tuo talento sottoterra; ecco qui il tuo talento” (Mt 25,24-25). Quest’ultimo servo che ha ricevuto un solo talento mostra come si comporta l’uomo quando non vive un’operosa fedeltà nei confronti di Dio. Prevale la paura, la stima di sé, l’affermazione dell’egoismo, che cerca di giustificare il proprio comportamento con la pretesa ingiusta del padrone, che miete dove non ha seminato. Questo atteggiamento implica da parte del Signore una punizione, perché quell’uomo è venuto meno alla responsabilità che gli era stata chiesta, e, così facendo, non ha portato a compimento ciò che la volontà di Dio esigeva, con la conseguenza sia di non realizzare se stesso, sia di non essere di utilità a nessuno. Invece il lavoro su di sé e per il mondo è qualcosa che deve impegnare concretamente il vero discepolo di Cristo. Nelle varie e specifiche situazioni in cui il cristiano è posto, egli deve saper discernere ciò che Dio vuole da lui ed eseguirlo con quella gioia, che poi Gesù rende piena ed eterna nel giorno della sua venuta, il “giorno del Signore” di cui parla San Paolo nella seconda ettura. L’Apostolo afferma del “giorno del Signore che verrà come un ladro di notte” (cf. 1Ts 5,2). Quindi l’Apostolo invita a che “il giorno del Signore possa sorprendervi come un ladro... non dormiamo... ma restiamo svegli e siamo sobri” (cf. 1Ts 5,4.6). Quest’invito si riferisce non soltanto a un momento concreto, che viene improvvisamente. Si riferisce anche a tutta la vita. L’uomo ha del resto – per così dire – una consapevolezza connaturale del fatto che, nel corso della sua vita, egli deve in qualche modo “realizzarsi”. Tale è la profonda struttura della personalità umana. L’uomo vive per realizzarsi, in un certo senso per una auto–realizzazione. L’opposto della realizzazione è una dissipazione di se stesso, della profonda umanità, della propria vita. A questa consapevolezza viene proprio incontro la parabola dei talenti di cui sopra menzionata. Il Vangelo, in pari tempo, mette in rilievo molto chiaramente il fatto che qui non si tratta soltanto di “realizzazione” nel senso immanente. La “realizzazione” evangelica si collega con un “aggiustamento dei conti”. L’uomo deve “regolare il conto” dei talenti che ha ricevuto dinanzi a colui da cui li ha ricevuti: dinanzi a Dio. Il “giorno del Signore” – come giorno del “regolamento dei conti” circa i talenti – è il giorno del giudizio di Dio.